sabato 31 maggio 2014

(Intervista) Marcello Rosa

Nel 2007 (10 novembre) realizzai questa intervista a Marcello Rosa per conto di Trombone Italia Magazine e, dal momento che il portale del trombone ha chiuso, la ripropongo qui onde evitare che vada perduta.

Incontro Marcello Rosa al Gregory’s di Roma e mi concede questa intervista prima del concerto con i Jazz Heritage di Bepi D’Amato. Avevo preparato una scaletta con una decina di domande pensando, visti i tempi stretti, di realizzarla in una mezz’ora. L’intervista invece si trasforma in un racconto di storie e, fra una pizza e una birra, Marcello si rivela, piacevolmente, come una enciclopedia vivente della storia del jazz e dei trombonisti che l’hanno scritta.  E’ un musicista carismatico, per niente presuntuoso anche se molto diretto e senza peli sulla lingua. Ecco le sue storie.

D: Ciao Marcello e grazie a nome di Trombone Italia Magazine per aver accettato questo invito.

R: Grazie a voi

D: 72 anni portati benissimo, da più di mezzo secolo ancora sulla scena del jazz italiano, e non solo italiano; trombonista, compositore, arrangiatore, conduttore di programmi televisivi. Come comincia questa lunga e prestigiosa carriera?

R:  Musicista con la m minuscola, poi, se qualcuno pensa di no, è meglio. Io ho cominciato a suonare il pianoforte all’età di 5 anni (mia madre era una buona pianista) è l’ho fatto abbastanza seriamente fino ai 12, quando ho avuto un rigetto per lo strumento perché quell’insegnamento non mi eccitava. C’è stato quindi un periodo di interregno durante il quale cominciai a vedere, nel 1946, i film americani con Tommy Dorsey, Glenn Miller e Xavier Cugat con la sua orchestra latina che mi piaceva molto, e così cominciai a riavvicinarmi alla musica perché, quello che sentivo e vedevo, mi dava delle sensazioni che non provavo con il genere studiato al pianoforte (che avrei apprezzato successivamente). Tra l’altro mia madre mi fece prendere anche delle lezioni di chitarra da un insegnante che all’epoca era considerato il Segovia italiano, Giambattista Noceti, ma anche in quel caso provai un forte disinteresse fin quando ebbi in regalo un disco a 78 giri di Kid Ory che suonava su una delle due facciate Savoy Blues; quella musica mi fece impazzire e da quel brano (non sapevo come fosse un trombone) capii che quello era il mio suono. Su quel disco c’è un famoso solo di Ory, abbastanza elementare, pieno di glissati però entusiasmante e dissi così a mia madre di accompagnarmi in un negozio per vedere come era fatto un trombone. Dopo un po’ di tempo mio padre me lo comprò e cominciai a studiare con un grande musicista, Emilio Mazzini, artista prodigio all’epoca, che era stato prigioniero in Africa e aveva conosciuto Tommy Dorsey che faceva i dischi per le truppe e che mi impostò molto bene, feci tesoro di certe basi, anche se lui non voleva che andassi in giro a suonare sperando che diventassi un insegnante.

D: E come hai deciso di cominciare a suonare il jazz?

R:  Credo che la mia fortuna nel jazz dipenda dal fatto che ho avuto modo di ascoltare la storia del jazz nel giro di un anno fatta da tre autentici protagonisti del trombone. Il primo concerto che ho visto di un solista fu nel 1954, il Jazz At The Philharmonic, il trombonisti era Bill Harrys, che a quell’epoca era il massimo del moderno (ancora non c’erano Jay & Kai). Dopo qualche mese vidi addirittura Trummy Young con Armstrong, per cui passai dal moderno al mainstream e, addirittura nel 1956-57 al Sistina di Roma venne Kid Ory che aveva 67 anni e mi chiedevo come facesse a suonare a quell’età. Era elegantissimo con l’orchestra in smoking e rappresentava il jazz tradizionale. Quindi nel giro di pochissimi anni ho assimilato il linguaggio jazzistico e a distinguere l’oro dalla patacca in tre linguaggi che erano diversissimi tra loro. Da allora mi è piaciuto suonare il trombone con quelle inflessioni che fanno parte di un codice espressivo che è il linguaggio del jazz. E a prescindere dai risultati che sono riuscito ad ottenere, scarsi magari, sono stato apprezzato dagli altri musicisti per la pertinenza del linguaggio tanto che, nella mia attività ho avuto modo di suonare sia con i vecchi esponenti che con i moderni come Slide Hampton, Bill Watrous, ecc. In sostanza si può essere grandi oratori o dire solo due parole, ma ciò che conta è come le dici. Ho suonato ciò che mi piaceva suonare, selezionando e andando ad ascoltare gli altri perché si impara sia da chi può dirti qualcosa che da chi non ti dice niente, ma ti rendi conto delle differenze. Può sembrare lapalissiano ma purtroppo, soprattutto in Italia, non è così e si tende a mettere delle etichette.

D: Hai parlato di grandi trombonisti. Come sono state queste esperienze con musicisti di un passato remoto ma anche più recente?

R: Trummy Young non l’ho solo conosciuto ma c’è stata un’amicizia durata 25 anni. E con lui incisi nel ’59 un disco insieme a Peanuts Hucko e Billy Kyle. Dopo 25 anni venne Hucko con un suo gruppo al Festival Jazz di Sanremo e mi invitarono a salire sul palco a suonare con loro When The Saints Go Marching In. Esiste anche una registrazione di quel concerto ma la RAI tagliò questa esibizione ufficialmente perché all’epoca conducevo un programma in RAI e quindi non sarei dovuto comparire. Se devo sintetizzare la mia attività, ho sempre detto “da Lionel Hampton a Slide Hampton”, perché nel ’67 andai in tournee con Lionel mentre Slide lo conobbi nel ’76 al Music Inn (dove lui aveva suonato con il suo quartetto di tromboni) e suonai Three Out che aveva scritto per me Pieranunzi. Slide mi ascoltò e mi fece suonare con lui per una settimana. Ero andato a sentirlo tutte le sere, la settimana precedente, scrissi i pezzi e suonai con un quintetto di tromboni dove lui era guest star. Organizzò le prove la domenica e dal lunedì al sabato suonammo. Con me c’era Dino Piana, Boccabella e Pellacani della RAI e Giancarlo Gazzani; l’unica condizione che Hampton impose fu quella di utilizzare la sua ritmica, facemmo le prove per l’intera domenica con il suo batterista che non leggeva la musica. Ci disse di non preoccuparci e l’indomani aveva imparato tutti i pezzi e la sera suonammo. Sempre al Music Inn e successivamente in altre occasioni suonai con Kai Winding che era il mio idolo fra i moderni perché rispetto a J.J. Johnson sentivo molta più affinità per il suo modo di suonare, per un fatto di linguaggio e ancora oggi molte frasi mi accorgo di averle prese da Kai, ferma restando l’ammirazione per J.J.

D: Nonostante queste esperienze ho letto però che ami suonare di più il jazz tradizionale.

R: No, questa è una cosa che risale a 46 anni fa quando suonavo con la Roman Dixieland Few Stars, ma poi ho suonato con Earl Hines, Bill Coleman, Lionel Hampton, Kai Winding, Slide Hampton, Bill Watrous, George Masso, Conte Candoli, possibile che il mio pedigree ancora oggi deve essere legato al Dixieland?  Infatti, i “tradizionalisti” mi hanno sempre mal sopportato perché avevo idee moderne ed i “modernisti” anche, a causa di questa esperienza nel dixieland. C’è ancora oggi questa moda di porre etichette e collocare un musicista sotto questo o quel genere. Però devo dire che questa visione “totale” della musica mi ha permesso di suonare con tutti, dirigendo anche l’orchestra della RAI, e comunque il Dixieland mi piace tantissimo con quell’impasto di tromba, trombone e clarinetto che consente delle espressività interessanti ma non deve ridursi ad un copiare ciò che ha suonato qualcun altro “altrimenti non è Dixie”. Suonare significa anche inventare qualcosa di proprio, dare la propria interpretazione

D: Questi erano i tempi d’oro del jazz, in Italia, oggi com’è la situazione?

R:  Ricordo che nel ’63 dovetti impormi al Piper (dominato da Patty Pravo) per portare un’orchestra di 14 elementi nella quale c’erano i migliori musicisti. Gli anni ’60 sono stati un periodo terrificante per questa musica. Oggi forse è più facile creare gruppi musicali ed orchestre perché ci sono tanti giovani e si assiste ad un proliferare di scuole alternative che, riconosco, hanno avuto il grandissimo pregio di dare ai giovani la possibilità di vivere la musica in una maniera molto più divertente (in inglese play è suonare ma anche giocare mentre i francesi dicono jouer), - quello che mi scocciava da ragazzino era l’ambiente accademico che mi metteva una tristezza infinita - e vedo che questo fenomeno ha dato dei frutti eccezionali. Al Saint Louis dove insegno, ci sono 1500 allievi. E’ cambiata anche la mentalità e l’approccio a questo genere musicale, mentre prima era fatta soprattutto sulla spinta dell’entusiasmo della novità; oggi i Direttori di queste scuole sono attenti ai diversi generi e praticamente tutti sono inseriti nei programmi scolastici, aiutati anche dalla facilità nel reperire strumenti, spartiti e metodi (prima dovevi ascoltare il disco e trascrivere tutto). Il problema è: tanti allievi che sanno leggere musica e suonare in gruppo, ma il solista? A copiare possono essere bravi tutti, ma quanti sanno inventare o interpretare? Perché il jazz è soprattutto questo, a volte basta cambiare una nota o la pronuncia per ottenere un lavoro originale, altrimenti è una ripetizione pedissequa di ciò che hanno fatto già altri.

D: qui si innesta il discorso dell’improvvisazione e dell’interpretazione, si può insegnare o è una dote individuale?

R: No, però puoi farlo capire, e ci vuole anche tanta passione per “insegnare” queste cose, in compenso, rispetto a 40 anni fa, c’è tanto “materiale umano” su cui lavorare.

D: E per quanto riguarda i trombonisti?

R: Per anni il trombone è stato lo strumento peggio suonato, dal punto di vista jazzistico. Adesso con mio grave disappunto ci sono una serie di trombonisti italiani giovanissimi di buon livello. Ad esempio Petrella: l’ho conosciuto alcuni anni fa perché ero molto amico del padre che ha la mia età. Una volta andai a Bari ospite della Jazz Studio Orchestra di Paolo Lepore (direttore del conservatorio di Taranto, dove insegnavo), formazione di buon livello professionale; la sezione era formata da quattro tromboni e fra questi c’era anche un ragazzino. Petrella mi disse che era il figlio e mi chiese se potevo fargli fare un solo, acconsentii e rimasi impressionato. Il motivo era che questo ragazzo aveva “mangiato” jazz dalla nascita. In seguito abbiamo suonato diverse volte insieme, per esempio al Trombone Poker di Villa Celimontana con Roberto Rossi (un genio assoluto), Luca Begonia e Petrella. Poi lui fu “fagocitato” da Rava e con lui si è fatto un nome di rilievo nel panorama jazzistico anche se, secondo me, sta attraversando un momento di involuzione pur continuando ad avere delle potenzialità impressionanti. Roberto Rossi è uno strumentista incredibile. A Roma, di alto livello,  c’è Mario Corvini (io suonavo con il padre) e Massimo Pirone che suona il trombone basso in maniera terrificante nella PMJO (Parco della Musica Jazz Orchestra), mi ha impressionato una volta in Svezia con me, Dino Piana, Rudy Migliardi e Pellacani. Migliardi è un altro grandissimo del trombone con il quale dovrei fare una mini tournée prossimamente, è un didatta eccezionale e in una intervista su Musica Jazz disse una cosa che per me fu un grandissimo onore: “Marcello Rosa non è un solista però scrive molto bene”; infatti lui usava i miei arrangiamenti per insegnare a Siena Jazz  perché conosco bene pregi e possibilità di questo strumento. Tra l’altro io non mi son mai messo a studiare sullo strumento, è una cosa che mi annoia; invece mi piace scrivere, immaginare cose che, forse, nessuno suonerà mai.

D: Prima si accennava al jazz in televisione. Ormai oggi è rarissimo vedere un concerto in TV salvo forse in orari impossibili qualche filmato d’epoca. Questo ha comportato anche nel tempo una perdita di interesse per questa musica soprattutto fra i giovani ed un “sconfinamento” solo in pochi locali specializzati. Come vedi questa situazione?

R: E’ strano, forse oggi di jazz si parla anche troppo. Una volta si diceva, “il jazz non passerà mai di moda perché non è stato mai di moda” invece adesso è di moda e se ne parla dappertutto. In Italia ci sono più festival che in qualsiasi altro paese del mondo ad uso soltanto di una ristrettissima cerchia di “privilegiati” e mi riferisco ai musicisti e non al pubblico. Son sempre gli stessi e sono diventati dei prodotti che devono sottostare alle leggi del mercato e dei manager; ad esempio uno come Bollani, da quando hanno inaugurato l’Auditorium del Parco della Musica, due anni fa, ci ha suonato sei volte, tanto che lui stesso ha detto in una intervista “in Italia per me il jazz va bene”.
Adesso si suona il jazz dappertutto e ad altissimo livello. E’ vero che forse manca il personaggio trainante mentre prima, per circa un secolo, ogni dieci anni c’era una novità, una corrente, uno stile (se vogliamo tornare alle etichette). Adesso è un po’ tutto globalizzato anche se l’evoluzione ha portato ad un livello maggiore, sfruttiamo questo livello perché c’è la maturità per fare cose importanti.

D: chi dovrebbe farlo?

R: chi ha sensibilità e potere. Solo che chi ha potere non ha sensibilità e chi è sensibile non ha il potere.

D: la domanda quindi è scontata, si può vivere di jazz oggi, o era più facile anni fa? Non sei pentito di non aver fatto l’architetto?

R: no, non sono pentito e  ho dimostrato, da quando ho cominciato, che si può fare. Tanti anni fa forse era più facile perché eravamo pochi anche se non avrei mai immaginato all’epoca che la musica sarebbe stata fonte di sostentamento. Però presi questa decisione consapevole del rischio e del fatto che chi sarebbe venuto ad ascoltarmi sarebbe stato altrettanto consapevole di ciò che suonavo. Non sono un professionista jazzista ma un jazzista professionista, con tutti i limiti che posso avere.

D: dopo tanti anni e con tutte le esperienze fatte, perché continui a suonare?

R: perché ancora mi entusiasmo, mi aggiorno, vado ad ascoltare gli altri, cose che spesso, se mancano, sono uno dei limiti allo sviluppo del jazz italiano. E’ lo stesso ambiente che mette dei paletti al suo sviluppo quando continua a riproporre standard senza originalità e jam session (che riesco ad accettare solo da qualche americano che non ho avuto modo di ascoltare su altre cose). All’ottanta per cento è così. La vera improvvisazione nasce dalla routine, quando tutto è bene oliato, puoi avere il momento di genio, sembra un controsenso ma è la routine che ti dà la sicurezza e ti mette in condizioni di crearti quello spazio per fare qualcosa di originale…se ci riesci.

D: ho visto una foto di qualche anno fa scattata al tuo sessantesimo compleanno. C’erano davanti a te sei candeline ognuna infilata in un bocchino da trombone capovolto, i bocchini ti erano stato regalati da Winding, Rosolino, Young, Johnson, Hampton. Ne sono arrivati altri negli ultimi dodici anni? E chi dovrebbe regalarteli?

R: no, non ne sono arrivati altri e non c’è più nessuno di loro. Quelli che me li hanno regalati erano delle vere e proprie leggende, quando li ascoltavo cercavo di capire cosa facevano. Oggi invece, quando ascolto qualcuno, al novanta per cento so già cosa farà con lo strumento. Ho acquisito tanta esperienza dal loro ascolto e dal suonare con loro.

D: per concludere una domanda sullo strumento. Cosa ti senti di dire ad un giovane che vuole avvicinarsi al trombone?

R: chi vuole cominciare deve per prima cosa “sentire” che quello è il suo strumento, deve provarlo e vedere quali sensazioni gli dà. Come raccontavo all’inizio, da bambino e fino a 12 anni, suonavo il pianoforte e la chitarra, ma ero insoddisfatto. Quando ho ascoltato la “voce” di un trombone su un vecchio disco me ne sono innamorato ed ho detto questo è il mio strumento pur non avendolo mai visto fisicamente. Sentire “intimamente” la musica che diventa parte della tua vita. Poi viene tutto il resto, l’ascolto della musica, dei grandi interpreti, l’esperienza, il suonare con gli altri e il suonare ciò che ti piace, la musica che senti e che ti appartiene.

Finisce qui questa intervista che somiglia più ad un racconto e che si snoda per oltre mezzo secolo nella evoluzione di quella “strana” musica chiamata jazz. Ringrazio Marcello Rosa per la sua disponibilità e cordialità e per le tante utili informazioni fornite (alcune da individuare fra le righe di quello che ha detto).

giovedì 29 maggio 2014

Pulizia dello strumento

La pulizia del trombone non è complicata ma è indispensabile per avere sempre uno strumento efficiente e che non si deteriori con il tempo. Ogni quanto fare le "grandi" pulizie? Per l'esterno basta passare il panno in microfibra ogni volta dopo l'utilizzo, per l'interno basta guardare nei tubi contro luce per capire che è arrivato il momento. Per la pulizia esterna, se lo strumento ha la laccatura di protezione, basta passare un panno in cotone morbido o in microfibra, e ritorna come nuovo oppure utilizzare gli appositi polish (diversi per strumenti gold o silver). Per lo sporco più ostinato è sufficiente un bagno in acqua tiepida e sapone passando all'interno dei tubi il flessibile (snake), se i tubi internamente hanno incrostazioni si possono tenere una mezza giornata pieni di anticalcare o aceto oppure far effettuare una pulizia con ultrasuoni. Dotarsi di panno, astina rigida o snake, strisce di cotone larghe una decina di centimetri, scovolino per il bocchino, olio per la coulisse (slide) e grasso per pompa di intonazione. Se è necessario sostituire il sughero della valvola di scarico procuratevi un taglierino e un tappo di sughero e sulle misure del vecchio costruitene uno nuovo e fissatelo nel suo alloggiamento con una goccia di colla (tipo Artiglio). Usare un tavolo pulito e sgombro da altri oggetti per evitare urti e conseguenti danneggiamenti.


Pulire il bocchino dopo aver suonato con un panno morbido o lavandolo con acqua e sapone passando all'interno da tutte e due le estremità l'apposito scovolino.
Arrotolare la striscia di cotone attorno all'astina infilando una estremità nell'apposito foro e farla scorrere nei tubi dei maschi e delle femmine della slide e della campana. Eventualmente si può bagnare la striscia di cotone con alcool denaturato per sgrassare meglio. Pulire l'esterno dei maschi con un panno morbido eventualmente imbevuto di alcool.
Spalmare poche gocce di lubrificante (leggere le istruzioni del produttore) su una estremità (rebbio) della slide.
Inserire nel tubo femmina e far scorrere ruotando nei due sensi in modo da distribuire bene il lubrificante sulla superficie. Ripetere l'operazione per l'altra estremità.
Per alcuni lubrificanti non è necessario spruzzare acqua.
Quando si avverte con l'uso una resistenza a volte basta spruzzare acqua, altre volte è necessario procedere con la nuova lubrificazione previa pulizia delle superfici.
Per la pompa di intonazione sgrassare bene le estremità (interna ed esterna) della pompa e quelle della campana (interna ed esterna). Applicate poco grasso su una estremità e spalmatelo con le dita.
Inserire nel tubo della campana ruotando nei due sensi. Ripetere l'operazione per l'altra estremità. Non spruzzare acqua. Se la pompa viene via troppo facilmemte è stato usato poco grasso o è poco viscoso, al contrario se si fa fatica a sollevarla facendo leva con il pollice il grasso è troppo viscoso o abbondante. La frequenza di lubrificazione della pompa non è elevata come quella della slide, di solito passano alcuni mesi prima di lubrificare nuovamente.
Se lo strumento è dotato di lead pipe mobile estrarla e pulirla sia internamente che esternamente. Quando si inserisce può essere opportuno lubrificare la parte filettata con una goccia di lubrificante della slide per prevenire bloccaggi. Non stringere eccessivamente e se è bloccata non cercare di forzare con pinze ma rivolgersi ad un riparatore. Idem per il bocchino.

venerdì 2 maggio 2014

Metodo di Studio Infallibile

Si riporta qui di seguito il miglior metodo sul mercato per diventare un buon trombonista:


1 - Sei già un musicista? 
      SI: allora studia.
      NO: trova uno strumento che ti piace e comincia a studiare.

2 - C'è qualcuno migliore di te?
      SI: allora studia.
      NO: trova qualcuno migliore di te e studia.

3 - Hai appena finito di studiare?
      Vai a dormire, svegliati e studia.

4 - Stai studiando in questo momento?
      Bene, non fermarti.

Risultato (quasi) garantito.


(CD) Marcello Rosa - A Child Is Born


Marcello Rosa - A Child is Born (Philology 2007).


L’ultima fatica discografica di Marcello Rosa ci propone 15 brani fra standard ed originali. E’ un disco che delinea il percorso artistico maturato in oltre 50 anni di jazz, dall’infanzia, testimoniata dalla sua foto di copertina attraverso l’adolescenza con la scoperta del jazz fino alla maturità; periodi felici e pieni di soddisfazioni, come scrive lo stesso Rosa nelle note del booklet che “alle soglie dell’immaturità” decide di rilassarsi e realizza questo bel CD. E’ il mainstream con influenze ellingtoniane e collaborazioni importanti , da Gravish a Bosso a Cuscito. 

Se qualcuno ha mai avuto modo di chiacchierare con Rosa avrà capito che oltre ad essere una fonte inesauribile di storie legate a questo genere musicale, è anche persona ironica e dissacrante ma, a dispetto dei suoi anni, ancora molto creativa e con tanta voglia di suonare (si ascolti The Very Thought Of You dove Rosa suona le parti di 1°, 2°, 3°, 4° trombone più la tromba) e, tali aspetti del suo carattere, li ritroviamo nelle esecuzioni. 

Per ogni brano è riportato un suo commento che “tradisce” l’ispirazione o una storia nascosta dietro al titolo, e così vengono fuori i nomi di Allred e Gordon, Rosolino e Masso, Fontana e Whigham, Tony Scott al quale è dedicato un brano con Cuscito al sax tenore e Rosa al pianoforte. Ma non c’è solo il periodo “immaturo” in questo disco, dopo i primi 11 brani sono state inserite 4 “chicche” ripescate da “cose vecchie ma non invecchiate” tratte da dischi fuori commercio incisi fra il 1973 e il 1985 e nei quali troviamo Pieranunzi, Scoppa, Urso (Alessio), Schiaffini, Munari e altri. Per uno di questi brani (Three Out), composto da Pieranunzi per Rosa, è riportata nel booklet la trascrizione del solo. 

Buone incisioni, ascolto godibile e interessanti note nel fascicoletto allegato che oltre a quanto già descritto contiene anche un po’ di foto e le riproduzioni delle locandine di manifestazioni musicali alle quali Rosa ha partecipato con musicisti che hanno segnato la storia del jazz e del trombone in particolare e che risvegliano un po’ di nostalgia per il vecchio vinile ma, soprattutto, per quei concerti dove non era impossibile mettere insieme dieci trombonisti (e che trombonisti!) in un concerto.