martedì 2 dicembre 2014

Yamaha's Sound

chi fa qualcosa con le mani è un operaio
chi fa qualcosa con le mani e la testa è un artigiano
chi fa qualcosa con le mani la testa e il cuore è un artista

Yamaha's Sound

domenica 14 settembre 2014

Marcello Rosa - Amari Accordi

Esce, per Arcana jazz, l’auto(non)biografia di Marcello Rosa, uno dei trombonisti più noti del panorama jazz italiano e non solo.

“Questa non è un’autobiografia. Potremmo considerarlo un manuale di consultazione utile per tutti quelli che vogliano saperne di più su quanto non si ha il coraggio di chiedere sul jazz di cosa nostra (e non è un refuso). In questo senso può essere addirittura considerato come un manuale di sopravvivenza molto istruttivo. Ma è anche l’appassionante ricostruzione di una carriera lunga più di mezzo secolo, di fatti e personaggi, di un’Italia, e di un jazz, che forse non ci sono più. “







Genere musica jazz
Listino:€ 17,50
Editore:Arcana
Data uscita:07/08/2014
Pagine:192
Formato:brossura
Lingua:Italiano
EAN:9788862313704
Oppure in libreria

martedì 2 settembre 2014

Brass Blog

Dalle ceneri del portale del trombone nasce oggi Brass Blog
la nuova piattaforma de iltrombone.it formato BLOG
condivisibile sulle piattaforme social network piu' famose
Interattività al massimo con la nuova interfaccia MOBILE, per una leggibilità migliorata su tutti gli smartphone
Un rinnovato punto di riferimento per i trombonisti italiani e per il mondo della musica

http://www.iltrombone.it


venerdì 25 luglio 2014

Il legato

Ciò che la maggior parte degli altri strumentisti a fiato chiamano "slur", per i trombonisti si chiama legato. Un trombettista può legare le note soffiando e usando i pistoni mentre un trombonista deve spesso utilizzare un leggero movimento della lingua, chiamato legato staccato, per evitare di glissare (indicato anche come “smear”) da una nota alla successiva o di ottenere un suono sporco.

I trombonisti usano i termini di legato e slur per indicare la stessa cosa. Infatti l'obiettivo è lo stesso, suonare due o più note con una connessione continua e priva di sbavature e, non avendo i pistoni che facilitano il compito, i trombonisti hanno altre tecniche per suonare legato.

La maggior parte dei trombonisti hanno difficoltà ad eseguire un legato cantato pulito e i principianti incontrano grosse difficoltà per questa tecnica che deve essere studiata quotidianamente e con attenzione.

Tolta la possibilità di usare i pistoni e di utilizzare il glissato le tecniche più usate, oltre all'uso della ritorta per legare le note, sono:

-il legato di labbro, quando la coulisse è in una posizione fissa e il labbro, con il sostegno dell'aria, esegue la legatura verso l'alto o verso il basso sugli armonici corrispondenti a quella posizione.

- il legato cosiddetto “cross-grain”, quando la coulisse viene mossa in una direzione opposta alla nota successiva senza l'utilizzo della lingua ma con un rapido movimento della stessa sostenuta dalla colonna d'aria. (ad es. da FA in prima a SOL in quarta o DO in terza – coulisse che scende e nota che sale).

- il legato di lingua, quando sia la coulisse che la nota successiva si muovono nella stessa direzione utilizzando un leggero colpo di lingua per evitare di glissare da una nota all' altra e che, rispetto alla precedente, richiede un maggiore coordinamento. (ad es. da MI in seconda RE in quarta o DO in sesta – coulisse che scende e nota che scende).

Per realizzare un buon legato è indispensabile un corretto uso dell'aria che deve avere un flusso continuo, senza interruzioni e pieno dall'inizio alla fine.

Seconda cosa importante, un movimento veloce e morbido della coulisse. 

Nel caso del legato di lingua è necessario coordinare il flusso dell'aria e il movimento veloce della coulisse con un leggero movimento della lingua verso l'alto in modo da formare un ostacolo al passaggio dell'aria per riabbassarla subito una volta che è stato preparato il labbro per la seconda nota da legare.

La tecnica del legato non è semplice e richiede impegno costante, va quindi studiata nella routine quotidiana, utilizzando esercizi appositi quali quelli dell'Arban o del Rochut ma, ancora una volta, l'ideale è studiare con un insegnante per evitare un apprendimento scorretto difficile poi da correggere. Nessun articolo in rete può sostituire un bravo maestro.

Esempio

venerdì 11 luglio 2014

Multifonia

Uno degli aspetti affascinanti, fra i tanti, del trombone è la possibilità di ottenere più suoni simultaneamente (multiphonics) pur essendo uno strumento che suona una nota per volta e non gli accordi come il pianoforte o la chitarra. In sintesi questi suoni si ottengono cantando delle sillabe durante l'emissione dell'aria, in realtà il fenomeno è più complesso e richiede un minimo di esperienza.
In questo articolo, il trombonista Giancarlo Giannini, ci parla della tecnica di esecuzione e dei risultati che si possono ottenere. Ovviamente l'articolo non è esaustivo nè sostitutivo di un buon insegnante e si rinvia, per gli approfondimenti, ai testi citati.


"Secondo me , per quello che riguarda la sillaba da usare eseguendo i "multiphonics", credo che la scelta dipenda dal tipo di effetto che si vuole ottenere. 
Usando le sillabe "AH" oppure "OH" si avrà una voce più aperta e tonda che forse si impasta meglio col suono del trombone. La sillaba può anche dipendere dall' altezza della nota che dobbiamo cantare.
E' anche possibile , dopo una certa pratica , cantare note alte in falsetto.
A mio parere è meglio cantare la nota in un registro "comodo" per la nostra voce e suonare le note sul trombone in un registro medio/ basso - medio , almeno all' inizio .

Nell' eseguire i Multiphonics , ci sono varie combinazioni di note da cantare e note da suonare col trombone.
A seconda dell' intervallo che si ottiene con le due note, ci può essere una terza nota che si genera automaticamente come "risultanza armonica" prodotta dall' intervallo eseguito.
Questo accade ovviamente dopo una certa pratica e quando, sia la nota cantata che quella suonata, sono perfettamente intonate tra loro.

Gli intervalli che producono una "risultante armonica" sono la 10a maggiore (terza maggiore sopra l' ottava della fondamentale ), che produce una quinta giusta in mezzo ai due suoni ; l' 11a giusta , che genera la terza maggiore , considerando una triade maggiore in secondo rivolto ( suonando un Bb , e cantando un Eb un' undicesima sopra , dovrebbe risultare in mezzo il G, per cui si ottiene una triade di Eb maggiore con la Quinta al basso ); la 10a minore , che produce una quinta giusta in mezzo all' intervallo .

L' intervallo di 5a può produrre l' ottava della fondamentale , per cui armonicamente non aggiunge suoni diversi all' intervallo stesso.

Anche l' intervallo di 7a minore è particolarmente interessante da eseguire, secondo me, anche se non produce "risultanze armoniche" . Può essere d' effetto per fare una cadenza V7/ I : suonando il F nel quarto rigo in chiave di basso e cantando un Eb una 7a minore sopra si ottiene il senso di una dominante (F7), che poi si risolve in una triade maggiore (Bb maggiore) suonando un Bb secondo rigo e cantando un D sopra al pentagramma (con il F come risultante) .

Le ottave e l' unisono sono estremamente difficili da eseguire perchè, se le due note non sono perfettamente intonate, alla minima variazione, si verificano dei pesanti "battimenti" tra i due suoni (si crea una forte "turbolenza" nello strumento ). Onestamente non mi sembrano interessanti come risultato visto che lo scopo dei "Multiphonics" è creare qualcosa che dia il senso della presenza di piu' note che si fondono insieme per ottenere una "base" armonica .

Per approfondire la cosa , trovo utile il libro di Bill Watrous e Alan Raph "Trombonisms", edito da Carl Fischer . Consultare il paragrafo "Playing more than one note"."

Oltre al testo citato da Giannini aggiungo un articolo un po' datato di Bob Bernotas
e due link di YouTube, fra i tanti, dove il trombonista Phil Wilson dà una dimostrazione pratica di cosa è la multifonia sul trombone:






mercoledì 2 luglio 2014

(TEST) Yamaha SB5X Silent Brass


Provata per circa un'ora sugli esercizi del Colin e sugli Studi di Cimera.

Il pick up è esteticamente molto bello, nero mat che sembra in carbonio, pesa 158 gr a fronte dei 225 del vecchio modello a pera e dei 164 della sshh Bremner.
Entra a filo di campana e sul mio trombone (Yamaha 891Z Custom) è possibile portarla per un pelo nella custodia inserita nella campana stessa. Entrando completamente nella campana non sposta molto il baricentro in avanti come il vecchio modello che affaticava alla lunga il polso. L'anello di gomma che la tiene ferma è efficace e senza forzare troppo nell'inserimento non è mai caduta.

Nella confezione c'è il cavo per collegare il pick up al personal studio e le cuffiette (che non sono il massimo, andrebbero sostituite con modello più performante a voler essere pignoli); il personal studio si aggancia alla cintura del pantalone o al taschino della camicia, pesa 119 gr con le batterie (2 AA) ed è più piccolo di un pacchetto di sigarette.

Oltre alla presa per la cuffia  e il collegamento alla sordina ha una presa input/output (cavo non in dotazione) per collegare una fonte esterna compreso iphone o per collegarsi ad un registratore di suoni.

Rotella per regolare il volume e sul lato due posizioni (REV1 e REV2) per il riverbero,
su REV1 è praticamente assente, suono secco come in sala d'incisione, su REV2 si sente il riverbero ma è abbastanza limitato e piacevole (io preferisco suonare con questo).

Non c'è la possibilità di collegare un alimentatore esterno per cui non so quanto dureranno le pile, manuale di istruzioni in tutte le lingue tranne italiano (che nel mondo comunque parliamo solo noi) ma per quello che c'è da fare è praticamente inutile.

Provata prima senza amplificazione ed è ottima, silenziosa come la Bremner, intonata (ho tirato la pompa fuori poco più del solito), si avverte un po' l'effetto tappo ma una volta amplificata la musica cambia, l'effetto tappo svanisce quasi del tutto, sul registro medio basso è molto free blowing, un po' meno salendo con le note ma sempre niente rispetto al passato, suono realistico come se non ci fosse la sordina (non al 100% ma rispetto al vecchio modello non c'è paragone) grazie alla tecnologia Brass Resonance Modelling che apporta le correzioni timbriche per renderlo più vicino possibile al reale.

Nessun problema sul registro, ho suonato dal SOLb sotto la fondamentale fino al RE fuori pentagramma (quello con 5 tagli), l'emissione è facile (per essere un tappo) ed intonata.

Ovvio che l'ideale è suonare aperti ma quando non è possibile è una valida alternativa anche per chi non vuole sentire solo il ronzio delle mute non amplificate ma il suono del suo strumento; senza personal studio è ideale per il warm up prima di un concerto potendola portare nella custodia inserita nella campana (questo non è possibile però per tutti i modelli di trombone, informarsi sul sito Yamaha).

Un consiglio per chi volesse acquistarla: se non la prendete in negozio girate la rete in lungo e in largo perchè i prezzi sono abbastanza variabili da un venditore all'altro (mettendoci anche le spese di spedizione ho risparmiato circa 28 euro).

Aggiungo una nota di Yamaha relativa agli auricolari: "con la nuova Silent Brass fare attenzione al tipo di spina delle cuffie. Per poter utilizzare al meglio il nuovo personal studio e sfruttare appieno la tecnologia Brass Resonance Modelling occorre usare cuffie che abbiano la spina divisa in tre diverse superfici di contatto (con due anellini neri).
Qualora si usino cuffie con 1 o 3 anellini neri (spine con 2 o 4 punti di contatto) si va ad annullare tale tecnologia con scarsi risultati d'ascolto."

venerdì 20 giugno 2014

(Intervista) Michael Supnick

Nel 2007 (14 novembre) realizzai questa intervista a Michael Supnick per conto di Trombone Italia Magazine e, dal momento che il portale del trombone ha chiuso, la ripropongo qui onde evitare che vada perduta.

 
L’intervista è stata realizzata al Gregory’s di Roma durante la pausa della jam session che si tiene in questo locale ogni mercoledì.

D: Grazie da parte di Trombone Italia Magazine per aver accettato l’invito. Un americano a Roma (ultimo tuo CD): parafrasando un americano a Parigi di Gershwin o il film di Alberto Sordi. Come sei approdato qui e quali i tuoi studi musicali.

R: Ho cominciato a suonare nella banda della scuola elementare, quando ancora si insegnava musica e, chi voleva, poteva frequentare il corso di musica 1 o 2 ore a settimana. Frequentando questa banda ho seguito alcune lezioni con jazzisti locali sia in Michigan che in California. Ho partecipato quindi ai campi estivi dove, contrariamente a quello che accade in Italia, in USA si possono frequentare per un periodo di due settimane corsi per Big Band, improvvisazione, teoria musicale e anche musica classica insieme ad altre attività anche sportive.


D: dopo queste prime esperienze hai continuato studiare musica al college?

R: si, un anno alla Indiana University, dove seguivo anche matematica, ed ho cominciato a studiare con David Baker. L’ambiente non mi piaceva molto, era sullo stile di “Animal House”, con feste fino alle tre di notte, per cui mi sono trasferito alla Berklee. All’età di 16 anni già suonavo in quartetti di tromboni, a feste e matrimoni, qualche serata nei ristoranti.



D: hai deciso quindi di venire in Italia?

R: non subito, a circa 22 anni ho fatto un giro in Europa (Inghilterra, Irlanda, Scozia, Francia, Belgio) portando con me lo strumento e suonando quando mi si presentava l’occasione sia in qualche locale sia con musicisti di strada, bravissimi, che di giorno suonavano in metropolitana e di sera nei locali. Un novembre, spinto dal freddo, sono arrivato a Roma deciso a prendere una stanza per sei mesi e stare un po’ tranquillo, al quartiere Salario. Non parlavo la lingua italiana, stavo all’Ostello della Gioventù spacciandomi per studente universitario. La mattina studiavo un po’ in casa poi quando tornavano gli altri me ne andavo a Villa Ada, d’inverno, portandomi lo strumento e tutti i libri, e lì all’aperto, col freddo, passavo 5-6 ore a studiare. Qualcuno mi ha ascoltato mentre studiavo e mi ha portato in alcuni locali e nel giro di sei mesi sono stato “scoperto” da Renzo Arbore. Non sapevo chi fosse, mi telefonò in questa casa di studenti e parlammo in modo molto informale, così andai a fare un provino.



D: sei polistrumentista, ma il tuo primo strumento è stato il trombone?

R: si sono nato trombonista anche se a circa 16 anni avevo già comprato una tromba. Adesso suono anche la cornetta e altri ottoni.



D: con quale di questi strumenti hai più affinità?

R: sul jazz moderno e be bop sicuramente il trombone anche perché sulla tromba non ho una buona tecnica per suonare quel genere ed il gap fra me e gli altri non è così marcato, mentre sulla tromba fra me e per esempio Clifford Brown c’è un abisso per cui preferisco suonare qualcosa di Chet Baker o Miles Davis.



D: e per il dixieland?

R: ho suonato spesso anche quel genere, le prime jam che ho fatto erano in dixie ed è stata poi una scelta anche di tipo commerciale nel momento in cui ho inciso i dischi.

I primi gruppi nei quali ho suonato erano moderni ma non mi sono mai legato troppo mentre ho avuto sempre un debole per il jazz tradizionale anche se i primi anni a Roma suonavo molto più be bop quasi esclusivamente con il trombone. Soltanto recentemente, qui al Gregory’s mi son messo d’impegno a rivedere il moderno. Lo stesso CD Un americano a Roma contiene molto mainstream e brani con basso tuba insieme al moderno, quasi modale.



D: tu suoni ottoni diversi, quali problemi si incontrano a suonare ad esempio sia la tromba che il trombone?

R: non sono strumenti a “labbro” ma strumenti a fiato, se controlli il fiato e non fai pressione non hai problemi. Il mio labbro è un unico blocco e quella parte che metto davanti raccoglie quello che sto facendo. Mi bastano tre secondi per adattarmi nel passaggio da uno strumento all’altro, anche se prendo uno strumento che non ho mai suonato. Quando frequentavo il Berklee studiavo tantissime ore e mi massacravo il labbro poi, Paolo Boccabella, mi suggerì di studiare sul Colin, a volte facevo quegli esercizi anche per 5 ore. Il Colin mi ha costruito un labbro ed un diaframma di “ferro”.



D: Marcello Rosa in una intervista mi ha detto che invece di studiare preferisce scrivere musica e suonare. Tu invece?

R: è qualche anno che non riesco a studiare molto a causa del poco tempo a disposizione dal momento che suono molto. Studiare poco e suonare molto va bene fin quando riesci a suonare tanto. Io poi, a differenza di Marcello e dei “veri” jazzisti, che rispetto per le scelte fatte, suono un po’ di tutto, alle feste, ai matrimoni, perché mi diverte e preferisco fare questo piuttosto che un altro lavoro che non abbia a che fare con la musica.



D: hai partecipato a molte rassegne jazz in Italia e in Europa collaborando con grandi musicisti. Quale ti ha maggiormente colpito o ti ha lasciato qualcosa di importante?

R: ho fatto dei bellissimi concerti in Svizzera, ad Ascona, c’era anche Tom Baker, un musicista australiano che purtroppo è scomparso. Anche il film La leggenda del Pianista sull’Oceano è stata una esperienza interessante: lì la parte del trombone era suonata da Marcello Rosa anche se ho inciso le parti di musica sinfonica. In Forever Blues invece suonavo il trombone ed ho doppiato Franco Nero con la cornetta “prestando” anche le mie mani per le inquadrature . A giugno ho fatto una cosa molto emozionante, ho suonato con la dixieland jazz band di Jimmy La Rocca, il figlio di Nick, colui che ha inciso il primo disco di jazz nel ’17: il trombonista della band mi chiamò da New York dicendo di presentarmi al posto suo perchè aveva un problema; riuscii a parlare con i musicisti dal treno mentre loro erano a Ferrara ed il pianista, che non mi conosceva, mi disse “se non sei sicuro non venire”, ho fatto tutto il viaggio ascoltando i brani che suonavano. Alla fine è andato tutto molto bene.



D: quanto sono importanti le jam soprattutto per i giovani che iniziano con questo genere di musica?

R: la jam di solito è la prima occasione per suonare in pubblico. Ricordo che per tanti anni, ogni volta che dovevo suonare davanti a qualcuno avevo le fitte all’addome, mi girava la testa, era la paura da esibizione ed il confronto con gli altri, poi con il tempo tutto questo è passato consentendomi di suonare in diretta alla RAI o con Arbore davanti a 60000 spettatori senza emozionarmi più di tanto. Qui al Gregory’s c’è questo spazio/opportunità settimanale al mercoledì, io cerco di invitare tutti a salire sul palco e provare a suonare, magari preparandosi un brano la settimana precedente, è un banco di prova e siamo molto “buoni” nei loro confronti, a differenza di altre jam dove si cerca di pilotare l’esibizione soprattutto verso la qualità negando così a molti questa possibilità.



D: nasce spontanea la domanda: come si fa ad improvvisare, si impara o è un qualcosa che fa parte del musicista?

R: è un “mistero”, però anche qui è importante lo studio, l’ascolto, tirar giù i soli dai dischi, memorizzare le frasi chiave, gli accordi. E’ anche un discorso matematico: se hai quattro accordi e su ogni accordo conosci due frasi hai a disposizione 16 combinazioni, se hai tre frasi le combinazioni sono 81, con quattro diventano 256. Imparare tre frasi sul maggiore e tre sul minore, tre sul dominante ti dà la possibilità almeno di cominciare.



D: Winton Marsalis dice che il jazz fa parte della cultura americana, è come se fosse nel DNA. In Italia dove ci sono altre radici musicali, come si colloca il jazz?

R: Purtroppo in Italia si ascolta poco jazz, puoi passare intere ore a girare sulle stazioni radio e non sentire un brano di jazz, ancora meno in televisione. Negli Stati Uniti invece è una musica che senti dappertutto, dalla nascita, persino nei cartoni animati. Apprendi lo swing, anche se, devo dire, che molti musicisti che suonano jazz moderno non conoscono lo swing. Mi è capitato anni fa di suonare con Bob Mintzer, che è modernissimo, eppure ha uno swing incredibile, perché conosce la storia, la cultura di questa musica. In Italia il jazz è arrivato nel dopoguerra con le grandi orchestre, ed i grandi solisti avevano già vissuto il loro periodo d’oro, non fa parte quindi delle radici culturali di questo paese, è una musica d’importazione, ciò non toglie che ci siano comunque grandi musicisti.



D: chi sono stati i tuoi musicisti di riferimento e quanto ti hanno influenzato nello stile?

R: il mio stile non è unico, questa sera ho suonato avvicinandomi ad Armstrong, altre sere sono più vicino a Chet Baker, altre volte è Bix, dipende molto anche da quello che sento intorno a me



D: chi è stato per te un grande trombonista del passato?

R: i soliti nomi conosciuti, Teagarden, Young, JJ Johnson, Slide Hampton con il quale ho preso delle lezioni private ed ho seguito un corso estivo. E’ importante seguire le Master Class con questi grandi trombonisti dai quali si impara tantissimo. Ho studiato anche qualche anno con Phil Wilson, primo trombone di Woody Herman.



D: qualche indicazione per i giovani che si avvicinano al trombone?

R: per suonare non ci sono trucchi o segreti, l’unico metodo che dà risultati è tanto studio e tanto impegno. Così come non esistono attrezzature magiche o bocchini speciali, l’ultimo che ho comprato è stato 10 anni fa per una esigenza particolare, altrimenti sono quasi vent’anni che suono con un 7C, il che non vuol dire che adesso tutti devono comprare il 7C, il bocchino vale molto meno di quello che di solito si pensa, stesso discorso per lo strumento, perché il “tuo” suono esce comunque da qualsiasi strumento (parlo di strumenti di buon livello). Per quanto riguarda lo studio io trovo fondamentale il Charles Colin, ma anche l’ascoltarsi molto è importante per migliorare.

martedì 10 giugno 2014

(CD) Colours Jazz Orchestra - Home Away from Home

Ricevo dall'amico trombonista Teodorico Zurlo questa recensione e la pubblico volentieri.

Il nuovo lavoro della Colours Jazz Orchestra è frutto della collaborazione tra questa formazione e l'arrangiatrice Any Inserto.

7 brani di cui 5 composizioni originali della stessa Inserto sono il ricco contenuto di un CD che fin dalle prime note mostra uno scintillante smalto sonoro.

Ogni ascolto rivela nuove scoperte, la solida ritmica supporta il lavoro di sezioni distribuite anche trasversalmente come combo diversi che dialogano in originali e piacevoli contrappunti.

Un feeling, quello tra Any Inserto e l'orchestra, che si svela da subito nella musica eseguita con entusiasmo e convinzione ben oltre le capacità professionalidi questa smagliante formazione. Lo stesso feeling, questa volta verso l'Italia, traspare anche dai titoli, il brano di apertura richiama uno scherzoso modo di dire tra amici caratteristico del centro-sud, dalle atmosfere ed è confessato nelle note del disco fino all'espicita dichiarazione d'amore del titolo: Come a casa lontano da casa.

Solo qualche esempio per comunicare le mie impressioni.

Bisogna ascoltare l'arrangiamento del brano Recorda Me di Joe Henderson per ritrovare, nel tempo quasi dimezzato, tutta la forza espressiva dell'originale caricata di nuova luce e sensualità.

Convince anche il mood più funky di brani come Hang Around dove ascoltiamo per la prima volta in questo disco il trombone di Massimo Morganti: fraseggio rotondo, grande tecnica al servizio di una concezione melodica mai banale, sono le caratteristiche di questo musicista, anche lui ottimo arrangiatore e leader di questa formazione di cui, solo in questa esperienza, ha ceduto lo scettro.

Il brano seguente La danza infinita ci regala ancora una prova convincente delle doti musicali di Massimo Morganti capace in questa ballad di toccare tutte le corde emotive.

Ancora un salto di atmosfera e Down A Rabbit Hole porta alla ribalta il lavoro della ritmica e delle sezioni che lasciano sbocciare il brano fino all'atteso climax al culmine di un solo di sax tenore di un ottimo Filippo Sebastianelli.

Wintry Mix è un'altra sontuosa dimostrazione delle capacità timbriche di Any Inserto, come in un respiro i brass e i sax si alternano disegnando trame in cui abbandonarsi, anche qui ascoltiamo un bell'assolo questa volta del pianista Emilio Marinelli.

Chiude il disco un allegro calipso Subo il cui tema, introdotto da Massimo Morganti al trombone, allarga subito il cuore e invita a ballare rendendo meno difficile separarsi dalla musica ascoltata.

Il disco è stato realizzato grazie ad un visionario quanto coraggioso progetto di crowdfunfing (bella l'etimologia! CROWD=Folla + FUNDING=Finanziamento) che è andato ben oltre l'affetto degli appassionati e che ha ripagato con una splendida musica di cui possiamo godere le note quanto lo spirito con cui è stata composta, arrangiata e suonata.

Non fatevi sfuggire questo album e tutte le occasioni nelle quali potrete ascoltare la Colours Jazz Orchestra, una formazione seconda a nessuna nell'attuale panorama musicale.
Teodorico Zurlo

https://itunes.apple.com/it/album/home- ... d860044605

sabato 31 maggio 2014

(Intervista) Marcello Rosa

Nel 2007 (10 novembre) realizzai questa intervista a Marcello Rosa per conto di Trombone Italia Magazine e, dal momento che il portale del trombone ha chiuso, la ripropongo qui onde evitare che vada perduta.

Incontro Marcello Rosa al Gregory’s di Roma e mi concede questa intervista prima del concerto con i Jazz Heritage di Bepi D’Amato. Avevo preparato una scaletta con una decina di domande pensando, visti i tempi stretti, di realizzarla in una mezz’ora. L’intervista invece si trasforma in un racconto di storie e, fra una pizza e una birra, Marcello si rivela, piacevolmente, come una enciclopedia vivente della storia del jazz e dei trombonisti che l’hanno scritta.  E’ un musicista carismatico, per niente presuntuoso anche se molto diretto e senza peli sulla lingua. Ecco le sue storie.

D: Ciao Marcello e grazie a nome di Trombone Italia Magazine per aver accettato questo invito.

R: Grazie a voi

D: 72 anni portati benissimo, da più di mezzo secolo ancora sulla scena del jazz italiano, e non solo italiano; trombonista, compositore, arrangiatore, conduttore di programmi televisivi. Come comincia questa lunga e prestigiosa carriera?

R:  Musicista con la m minuscola, poi, se qualcuno pensa di no, è meglio. Io ho cominciato a suonare il pianoforte all’età di 5 anni (mia madre era una buona pianista) è l’ho fatto abbastanza seriamente fino ai 12, quando ho avuto un rigetto per lo strumento perché quell’insegnamento non mi eccitava. C’è stato quindi un periodo di interregno durante il quale cominciai a vedere, nel 1946, i film americani con Tommy Dorsey, Glenn Miller e Xavier Cugat con la sua orchestra latina che mi piaceva molto, e così cominciai a riavvicinarmi alla musica perché, quello che sentivo e vedevo, mi dava delle sensazioni che non provavo con il genere studiato al pianoforte (che avrei apprezzato successivamente). Tra l’altro mia madre mi fece prendere anche delle lezioni di chitarra da un insegnante che all’epoca era considerato il Segovia italiano, Giambattista Noceti, ma anche in quel caso provai un forte disinteresse fin quando ebbi in regalo un disco a 78 giri di Kid Ory che suonava su una delle due facciate Savoy Blues; quella musica mi fece impazzire e da quel brano (non sapevo come fosse un trombone) capii che quello era il mio suono. Su quel disco c’è un famoso solo di Ory, abbastanza elementare, pieno di glissati però entusiasmante e dissi così a mia madre di accompagnarmi in un negozio per vedere come era fatto un trombone. Dopo un po’ di tempo mio padre me lo comprò e cominciai a studiare con un grande musicista, Emilio Mazzini, artista prodigio all’epoca, che era stato prigioniero in Africa e aveva conosciuto Tommy Dorsey che faceva i dischi per le truppe e che mi impostò molto bene, feci tesoro di certe basi, anche se lui non voleva che andassi in giro a suonare sperando che diventassi un insegnante.

D: E come hai deciso di cominciare a suonare il jazz?

R:  Credo che la mia fortuna nel jazz dipenda dal fatto che ho avuto modo di ascoltare la storia del jazz nel giro di un anno fatta da tre autentici protagonisti del trombone. Il primo concerto che ho visto di un solista fu nel 1954, il Jazz At The Philharmonic, il trombonisti era Bill Harrys, che a quell’epoca era il massimo del moderno (ancora non c’erano Jay & Kai). Dopo qualche mese vidi addirittura Trummy Young con Armstrong, per cui passai dal moderno al mainstream e, addirittura nel 1956-57 al Sistina di Roma venne Kid Ory che aveva 67 anni e mi chiedevo come facesse a suonare a quell’età. Era elegantissimo con l’orchestra in smoking e rappresentava il jazz tradizionale. Quindi nel giro di pochissimi anni ho assimilato il linguaggio jazzistico e a distinguere l’oro dalla patacca in tre linguaggi che erano diversissimi tra loro. Da allora mi è piaciuto suonare il trombone con quelle inflessioni che fanno parte di un codice espressivo che è il linguaggio del jazz. E a prescindere dai risultati che sono riuscito ad ottenere, scarsi magari, sono stato apprezzato dagli altri musicisti per la pertinenza del linguaggio tanto che, nella mia attività ho avuto modo di suonare sia con i vecchi esponenti che con i moderni come Slide Hampton, Bill Watrous, ecc. In sostanza si può essere grandi oratori o dire solo due parole, ma ciò che conta è come le dici. Ho suonato ciò che mi piaceva suonare, selezionando e andando ad ascoltare gli altri perché si impara sia da chi può dirti qualcosa che da chi non ti dice niente, ma ti rendi conto delle differenze. Può sembrare lapalissiano ma purtroppo, soprattutto in Italia, non è così e si tende a mettere delle etichette.

D: Hai parlato di grandi trombonisti. Come sono state queste esperienze con musicisti di un passato remoto ma anche più recente?

R: Trummy Young non l’ho solo conosciuto ma c’è stata un’amicizia durata 25 anni. E con lui incisi nel ’59 un disco insieme a Peanuts Hucko e Billy Kyle. Dopo 25 anni venne Hucko con un suo gruppo al Festival Jazz di Sanremo e mi invitarono a salire sul palco a suonare con loro When The Saints Go Marching In. Esiste anche una registrazione di quel concerto ma la RAI tagliò questa esibizione ufficialmente perché all’epoca conducevo un programma in RAI e quindi non sarei dovuto comparire. Se devo sintetizzare la mia attività, ho sempre detto “da Lionel Hampton a Slide Hampton”, perché nel ’67 andai in tournee con Lionel mentre Slide lo conobbi nel ’76 al Music Inn (dove lui aveva suonato con il suo quartetto di tromboni) e suonai Three Out che aveva scritto per me Pieranunzi. Slide mi ascoltò e mi fece suonare con lui per una settimana. Ero andato a sentirlo tutte le sere, la settimana precedente, scrissi i pezzi e suonai con un quintetto di tromboni dove lui era guest star. Organizzò le prove la domenica e dal lunedì al sabato suonammo. Con me c’era Dino Piana, Boccabella e Pellacani della RAI e Giancarlo Gazzani; l’unica condizione che Hampton impose fu quella di utilizzare la sua ritmica, facemmo le prove per l’intera domenica con il suo batterista che non leggeva la musica. Ci disse di non preoccuparci e l’indomani aveva imparato tutti i pezzi e la sera suonammo. Sempre al Music Inn e successivamente in altre occasioni suonai con Kai Winding che era il mio idolo fra i moderni perché rispetto a J.J. Johnson sentivo molta più affinità per il suo modo di suonare, per un fatto di linguaggio e ancora oggi molte frasi mi accorgo di averle prese da Kai, ferma restando l’ammirazione per J.J.

D: Nonostante queste esperienze ho letto però che ami suonare di più il jazz tradizionale.

R: No, questa è una cosa che risale a 46 anni fa quando suonavo con la Roman Dixieland Few Stars, ma poi ho suonato con Earl Hines, Bill Coleman, Lionel Hampton, Kai Winding, Slide Hampton, Bill Watrous, George Masso, Conte Candoli, possibile che il mio pedigree ancora oggi deve essere legato al Dixieland?  Infatti, i “tradizionalisti” mi hanno sempre mal sopportato perché avevo idee moderne ed i “modernisti” anche, a causa di questa esperienza nel dixieland. C’è ancora oggi questa moda di porre etichette e collocare un musicista sotto questo o quel genere. Però devo dire che questa visione “totale” della musica mi ha permesso di suonare con tutti, dirigendo anche l’orchestra della RAI, e comunque il Dixieland mi piace tantissimo con quell’impasto di tromba, trombone e clarinetto che consente delle espressività interessanti ma non deve ridursi ad un copiare ciò che ha suonato qualcun altro “altrimenti non è Dixie”. Suonare significa anche inventare qualcosa di proprio, dare la propria interpretazione

D: Questi erano i tempi d’oro del jazz, in Italia, oggi com’è la situazione?

R:  Ricordo che nel ’63 dovetti impormi al Piper (dominato da Patty Pravo) per portare un’orchestra di 14 elementi nella quale c’erano i migliori musicisti. Gli anni ’60 sono stati un periodo terrificante per questa musica. Oggi forse è più facile creare gruppi musicali ed orchestre perché ci sono tanti giovani e si assiste ad un proliferare di scuole alternative che, riconosco, hanno avuto il grandissimo pregio di dare ai giovani la possibilità di vivere la musica in una maniera molto più divertente (in inglese play è suonare ma anche giocare mentre i francesi dicono jouer), - quello che mi scocciava da ragazzino era l’ambiente accademico che mi metteva una tristezza infinita - e vedo che questo fenomeno ha dato dei frutti eccezionali. Al Saint Louis dove insegno, ci sono 1500 allievi. E’ cambiata anche la mentalità e l’approccio a questo genere musicale, mentre prima era fatta soprattutto sulla spinta dell’entusiasmo della novità; oggi i Direttori di queste scuole sono attenti ai diversi generi e praticamente tutti sono inseriti nei programmi scolastici, aiutati anche dalla facilità nel reperire strumenti, spartiti e metodi (prima dovevi ascoltare il disco e trascrivere tutto). Il problema è: tanti allievi che sanno leggere musica e suonare in gruppo, ma il solista? A copiare possono essere bravi tutti, ma quanti sanno inventare o interpretare? Perché il jazz è soprattutto questo, a volte basta cambiare una nota o la pronuncia per ottenere un lavoro originale, altrimenti è una ripetizione pedissequa di ciò che hanno fatto già altri.

D: qui si innesta il discorso dell’improvvisazione e dell’interpretazione, si può insegnare o è una dote individuale?

R: No, però puoi farlo capire, e ci vuole anche tanta passione per “insegnare” queste cose, in compenso, rispetto a 40 anni fa, c’è tanto “materiale umano” su cui lavorare.

D: E per quanto riguarda i trombonisti?

R: Per anni il trombone è stato lo strumento peggio suonato, dal punto di vista jazzistico. Adesso con mio grave disappunto ci sono una serie di trombonisti italiani giovanissimi di buon livello. Ad esempio Petrella: l’ho conosciuto alcuni anni fa perché ero molto amico del padre che ha la mia età. Una volta andai a Bari ospite della Jazz Studio Orchestra di Paolo Lepore (direttore del conservatorio di Taranto, dove insegnavo), formazione di buon livello professionale; la sezione era formata da quattro tromboni e fra questi c’era anche un ragazzino. Petrella mi disse che era il figlio e mi chiese se potevo fargli fare un solo, acconsentii e rimasi impressionato. Il motivo era che questo ragazzo aveva “mangiato” jazz dalla nascita. In seguito abbiamo suonato diverse volte insieme, per esempio al Trombone Poker di Villa Celimontana con Roberto Rossi (un genio assoluto), Luca Begonia e Petrella. Poi lui fu “fagocitato” da Rava e con lui si è fatto un nome di rilievo nel panorama jazzistico anche se, secondo me, sta attraversando un momento di involuzione pur continuando ad avere delle potenzialità impressionanti. Roberto Rossi è uno strumentista incredibile. A Roma, di alto livello,  c’è Mario Corvini (io suonavo con il padre) e Massimo Pirone che suona il trombone basso in maniera terrificante nella PMJO (Parco della Musica Jazz Orchestra), mi ha impressionato una volta in Svezia con me, Dino Piana, Rudy Migliardi e Pellacani. Migliardi è un altro grandissimo del trombone con il quale dovrei fare una mini tournée prossimamente, è un didatta eccezionale e in una intervista su Musica Jazz disse una cosa che per me fu un grandissimo onore: “Marcello Rosa non è un solista però scrive molto bene”; infatti lui usava i miei arrangiamenti per insegnare a Siena Jazz  perché conosco bene pregi e possibilità di questo strumento. Tra l’altro io non mi son mai messo a studiare sullo strumento, è una cosa che mi annoia; invece mi piace scrivere, immaginare cose che, forse, nessuno suonerà mai.

D: Prima si accennava al jazz in televisione. Ormai oggi è rarissimo vedere un concerto in TV salvo forse in orari impossibili qualche filmato d’epoca. Questo ha comportato anche nel tempo una perdita di interesse per questa musica soprattutto fra i giovani ed un “sconfinamento” solo in pochi locali specializzati. Come vedi questa situazione?

R: E’ strano, forse oggi di jazz si parla anche troppo. Una volta si diceva, “il jazz non passerà mai di moda perché non è stato mai di moda” invece adesso è di moda e se ne parla dappertutto. In Italia ci sono più festival che in qualsiasi altro paese del mondo ad uso soltanto di una ristrettissima cerchia di “privilegiati” e mi riferisco ai musicisti e non al pubblico. Son sempre gli stessi e sono diventati dei prodotti che devono sottostare alle leggi del mercato e dei manager; ad esempio uno come Bollani, da quando hanno inaugurato l’Auditorium del Parco della Musica, due anni fa, ci ha suonato sei volte, tanto che lui stesso ha detto in una intervista “in Italia per me il jazz va bene”.
Adesso si suona il jazz dappertutto e ad altissimo livello. E’ vero che forse manca il personaggio trainante mentre prima, per circa un secolo, ogni dieci anni c’era una novità, una corrente, uno stile (se vogliamo tornare alle etichette). Adesso è un po’ tutto globalizzato anche se l’evoluzione ha portato ad un livello maggiore, sfruttiamo questo livello perché c’è la maturità per fare cose importanti.

D: chi dovrebbe farlo?

R: chi ha sensibilità e potere. Solo che chi ha potere non ha sensibilità e chi è sensibile non ha il potere.

D: la domanda quindi è scontata, si può vivere di jazz oggi, o era più facile anni fa? Non sei pentito di non aver fatto l’architetto?

R: no, non sono pentito e  ho dimostrato, da quando ho cominciato, che si può fare. Tanti anni fa forse era più facile perché eravamo pochi anche se non avrei mai immaginato all’epoca che la musica sarebbe stata fonte di sostentamento. Però presi questa decisione consapevole del rischio e del fatto che chi sarebbe venuto ad ascoltarmi sarebbe stato altrettanto consapevole di ciò che suonavo. Non sono un professionista jazzista ma un jazzista professionista, con tutti i limiti che posso avere.

D: dopo tanti anni e con tutte le esperienze fatte, perché continui a suonare?

R: perché ancora mi entusiasmo, mi aggiorno, vado ad ascoltare gli altri, cose che spesso, se mancano, sono uno dei limiti allo sviluppo del jazz italiano. E’ lo stesso ambiente che mette dei paletti al suo sviluppo quando continua a riproporre standard senza originalità e jam session (che riesco ad accettare solo da qualche americano che non ho avuto modo di ascoltare su altre cose). All’ottanta per cento è così. La vera improvvisazione nasce dalla routine, quando tutto è bene oliato, puoi avere il momento di genio, sembra un controsenso ma è la routine che ti dà la sicurezza e ti mette in condizioni di crearti quello spazio per fare qualcosa di originale…se ci riesci.

D: ho visto una foto di qualche anno fa scattata al tuo sessantesimo compleanno. C’erano davanti a te sei candeline ognuna infilata in un bocchino da trombone capovolto, i bocchini ti erano stato regalati da Winding, Rosolino, Young, Johnson, Hampton. Ne sono arrivati altri negli ultimi dodici anni? E chi dovrebbe regalarteli?

R: no, non ne sono arrivati altri e non c’è più nessuno di loro. Quelli che me li hanno regalati erano delle vere e proprie leggende, quando li ascoltavo cercavo di capire cosa facevano. Oggi invece, quando ascolto qualcuno, al novanta per cento so già cosa farà con lo strumento. Ho acquisito tanta esperienza dal loro ascolto e dal suonare con loro.

D: per concludere una domanda sullo strumento. Cosa ti senti di dire ad un giovane che vuole avvicinarsi al trombone?

R: chi vuole cominciare deve per prima cosa “sentire” che quello è il suo strumento, deve provarlo e vedere quali sensazioni gli dà. Come raccontavo all’inizio, da bambino e fino a 12 anni, suonavo il pianoforte e la chitarra, ma ero insoddisfatto. Quando ho ascoltato la “voce” di un trombone su un vecchio disco me ne sono innamorato ed ho detto questo è il mio strumento pur non avendolo mai visto fisicamente. Sentire “intimamente” la musica che diventa parte della tua vita. Poi viene tutto il resto, l’ascolto della musica, dei grandi interpreti, l’esperienza, il suonare con gli altri e il suonare ciò che ti piace, la musica che senti e che ti appartiene.

Finisce qui questa intervista che somiglia più ad un racconto e che si snoda per oltre mezzo secolo nella evoluzione di quella “strana” musica chiamata jazz. Ringrazio Marcello Rosa per la sua disponibilità e cordialità e per le tante utili informazioni fornite (alcune da individuare fra le righe di quello che ha detto).

giovedì 29 maggio 2014

Pulizia dello strumento

La pulizia del trombone non è complicata ma è indispensabile per avere sempre uno strumento efficiente e che non si deteriori con il tempo. Ogni quanto fare le "grandi" pulizie? Per l'esterno basta passare il panno in microfibra ogni volta dopo l'utilizzo, per l'interno basta guardare nei tubi contro luce per capire che è arrivato il momento. Per la pulizia esterna, se lo strumento ha la laccatura di protezione, basta passare un panno in cotone morbido o in microfibra, e ritorna come nuovo oppure utilizzare gli appositi polish (diversi per strumenti gold o silver). Per lo sporco più ostinato è sufficiente un bagno in acqua tiepida e sapone passando all'interno dei tubi il flessibile (snake), se i tubi internamente hanno incrostazioni si possono tenere una mezza giornata pieni di anticalcare o aceto oppure far effettuare una pulizia con ultrasuoni. Dotarsi di panno, astina rigida o snake, strisce di cotone larghe una decina di centimetri, scovolino per il bocchino, olio per la coulisse (slide) e grasso per pompa di intonazione. Se è necessario sostituire il sughero della valvola di scarico procuratevi un taglierino e un tappo di sughero e sulle misure del vecchio costruitene uno nuovo e fissatelo nel suo alloggiamento con una goccia di colla (tipo Artiglio). Usare un tavolo pulito e sgombro da altri oggetti per evitare urti e conseguenti danneggiamenti.


Pulire il bocchino dopo aver suonato con un panno morbido o lavandolo con acqua e sapone passando all'interno da tutte e due le estremità l'apposito scovolino.
Arrotolare la striscia di cotone attorno all'astina infilando una estremità nell'apposito foro e farla scorrere nei tubi dei maschi e delle femmine della slide e della campana. Eventualmente si può bagnare la striscia di cotone con alcool denaturato per sgrassare meglio. Pulire l'esterno dei maschi con un panno morbido eventualmente imbevuto di alcool.
Spalmare poche gocce di lubrificante (leggere le istruzioni del produttore) su una estremità (rebbio) della slide.
Inserire nel tubo femmina e far scorrere ruotando nei due sensi in modo da distribuire bene il lubrificante sulla superficie. Ripetere l'operazione per l'altra estremità.
Per alcuni lubrificanti non è necessario spruzzare acqua.
Quando si avverte con l'uso una resistenza a volte basta spruzzare acqua, altre volte è necessario procedere con la nuova lubrificazione previa pulizia delle superfici.
Per la pompa di intonazione sgrassare bene le estremità (interna ed esterna) della pompa e quelle della campana (interna ed esterna). Applicate poco grasso su una estremità e spalmatelo con le dita.
Inserire nel tubo della campana ruotando nei due sensi. Ripetere l'operazione per l'altra estremità. Non spruzzare acqua. Se la pompa viene via troppo facilmemte è stato usato poco grasso o è poco viscoso, al contrario se si fa fatica a sollevarla facendo leva con il pollice il grasso è troppo viscoso o abbondante. La frequenza di lubrificazione della pompa non è elevata come quella della slide, di solito passano alcuni mesi prima di lubrificare nuovamente.
Se lo strumento è dotato di lead pipe mobile estrarla e pulirla sia internamente che esternamente. Quando si inserisce può essere opportuno lubrificare la parte filettata con una goccia di lubrificante della slide per prevenire bloccaggi. Non stringere eccessivamente e se è bloccata non cercare di forzare con pinze ma rivolgersi ad un riparatore. Idem per il bocchino.

venerdì 2 maggio 2014

Metodo di Studio Infallibile

Si riporta qui di seguito il miglior metodo sul mercato per diventare un buon trombonista:


1 - Sei già un musicista? 
      SI: allora studia.
      NO: trova uno strumento che ti piace e comincia a studiare.

2 - C'è qualcuno migliore di te?
      SI: allora studia.
      NO: trova qualcuno migliore di te e studia.

3 - Hai appena finito di studiare?
      Vai a dormire, svegliati e studia.

4 - Stai studiando in questo momento?
      Bene, non fermarti.

Risultato (quasi) garantito.


(CD) Marcello Rosa - A Child Is Born


Marcello Rosa - A Child is Born (Philology 2007).


L’ultima fatica discografica di Marcello Rosa ci propone 15 brani fra standard ed originali. E’ un disco che delinea il percorso artistico maturato in oltre 50 anni di jazz, dall’infanzia, testimoniata dalla sua foto di copertina attraverso l’adolescenza con la scoperta del jazz fino alla maturità; periodi felici e pieni di soddisfazioni, come scrive lo stesso Rosa nelle note del booklet che “alle soglie dell’immaturità” decide di rilassarsi e realizza questo bel CD. E’ il mainstream con influenze ellingtoniane e collaborazioni importanti , da Gravish a Bosso a Cuscito. 

Se qualcuno ha mai avuto modo di chiacchierare con Rosa avrà capito che oltre ad essere una fonte inesauribile di storie legate a questo genere musicale, è anche persona ironica e dissacrante ma, a dispetto dei suoi anni, ancora molto creativa e con tanta voglia di suonare (si ascolti The Very Thought Of You dove Rosa suona le parti di 1°, 2°, 3°, 4° trombone più la tromba) e, tali aspetti del suo carattere, li ritroviamo nelle esecuzioni. 

Per ogni brano è riportato un suo commento che “tradisce” l’ispirazione o una storia nascosta dietro al titolo, e così vengono fuori i nomi di Allred e Gordon, Rosolino e Masso, Fontana e Whigham, Tony Scott al quale è dedicato un brano con Cuscito al sax tenore e Rosa al pianoforte. Ma non c’è solo il periodo “immaturo” in questo disco, dopo i primi 11 brani sono state inserite 4 “chicche” ripescate da “cose vecchie ma non invecchiate” tratte da dischi fuori commercio incisi fra il 1973 e il 1985 e nei quali troviamo Pieranunzi, Scoppa, Urso (Alessio), Schiaffini, Munari e altri. Per uno di questi brani (Three Out), composto da Pieranunzi per Rosa, è riportata nel booklet la trascrizione del solo. 

Buone incisioni, ascolto godibile e interessanti note nel fascicoletto allegato che oltre a quanto già descritto contiene anche un po’ di foto e le riproduzioni delle locandine di manifestazioni musicali alle quali Rosa ha partecipato con musicisti che hanno segnato la storia del jazz e del trombone in particolare e che risvegliano un po’ di nostalgia per il vecchio vinile ma, soprattutto, per quei concerti dove non era impossibile mettere insieme dieci trombonisti (e che trombonisti!) in un concerto.

lunedì 21 aprile 2014

La scelta del bocchino

Premessa: la scelta del bocchino è quella che spesso assilla maggiormente i suonatori di labiofoni in quanto questo accessorio determina la qualità del suono e se aggiungiamo che oggi sul mercato ne esiste una varietà pressochè sterminata tale scelta si complica ulteriormente.

Il bocchino è composto, come visto in  altro articolo, da bordo, tazza, e penna e la forma e le dimensioni di ciascuno di questi componenti influenza il suono e determina differenze anche notevoli. Chiariamo subito che non esiste il bocchino magico, quello che risolve tutti i problemi e buono per suonare tutto; come accade per tutte le cose della vita ciò che si guadagna da un lato si perde dall'altro, si tratta quindi di trovare il giusto equilibrio che riesca a soddisfare le proprie esigenze musicali. Un pessimo musicista suonerà male anche con il miglior bocchino, le note acute o gravi così come il bel suono o l'intonazione dovranno essere già patrimonio di costui con lo studio impegnativo e costante in modo che il bocchino potrà essere d'aiuto a far risaltare alcune caratteristiche possedute.

Una cosa invece accomuna i diversi modelli, il bocchino, o meglio l'appoggio, deve essere prima di tutto comodo per le labbra, non deve stancare, procurare lesioni o rendere difficoltosa l'emissione durante la pratica. Tra l'altro tutte le labbra sono diverse, la morfologia della bocca, dei denti della cavità orale e lo sviluppo della muscolatura variano da individuo a individuo (25-28 ossa del cranio, circa 43 muscoli dei quali 13 solo attorno alle labbra) pertanto tutte le indicazioni che seguono sono necessariamente sintetiche e servono solo a dare una indicazione di massima sulle caratteristiche e sull'influenza delle varie parti componenti il bocchino. L'indicazione generale è quella di provare possibilmente un bocchino, magari partendo da misure/modelli standard, usarlo quotidianamente per un periodo prolungato di tempo (circa un mese), per poi decidere se cambiarlo e quale caratteristica cercare in un altro modello adatta a raggiungere i propri obiettivi musicali.


Il bordo o appoggio è formato dallo spigolo esterno, dal profilo, dal mordente, dallo spessore e dal diametro interno. La caratteristica importante dell'appoggio è che sia comodo per le labbra. La funzione dello spigolo esterno è prevalentemente quella di ancorare le labbra al bocchino. La forma dell'appoggio può essere piatta o bombata, l'appoggio piatto ha una superficie di contatto maggiore  ed è utile per la resistenza pur diminuendo la sensibilità e il controllo sul registro più alto mentre accade il contrario per quello bombato . Il mordente o angolo interno ha influenza sulla precisione degli attacchi, a seconda dell'angolo può aiutare o meno negli attacchi avendo influenza anche sull'agilità. Lo spessore dell'appoggio influisce sulla comodità e ma se troppo ampio fa diminuire la flessibilità ovvero, se troppo stretto, può danneggiare le labbra o diminuire la resistenza.  Il diametro interno della tazza se troppo stretto può creare difficoltà nel registro basso mentre se troppo largo influisce negativamente sul registro acuto fa diminuire la resistenza e può creare problemi di intonazione.


La tazza è formata dal profilo, dal diametro e dalla profondità che ne determinano il volume. la tazza con un profilo a C rispetto alla  tazza a V presenta una maggiore resistenza al flusso d’aria ed una maggiore turbolenza del passaggio tra la tazza e la gola. Inoltre la tazza a C fa risaltare le armoniche di ordine superiore mentre la tazza a V fa risaltare la componente fondamentale del suono. Ad un maggior volume della tazza corrispondono sonorità più ricche ed ampie. Una tazza profonda può essere utile per produrre un suono scuro e aiutare nel registro grave, mentre una tazza poco profonda può essere utile per produrre un suono chiaro e l’esecuzione nel registro acuto. Una tazza dal diametro largo dà un suono più ampio ed un timbro ricco consentendo ad una porzione maggiore delle labbra che vibrano di entrare al suo interno.


La penna è formata dalla gola, dal retroforo e dal fianco. La gola regola il livello di pressione dell’aria all’interno della tazza dando luogo al noto fenomeno della retropressione in quanto diametro e profondità influiscono sulla resistenza al passaggio dell'aria. Una gola larga può favorire un volume sonore elevato ma se troppo larga rende il suono poco stabile. Subito dopo la gola si apre il retroforo che se di diametro stretto può dare un suono più brillante e favorire nel registro acuto mentre un retroforo largo aumenta il volume sonoro aiutando nell'esecuzione del registro basso.

Quanto descritto sinteticamente sopra dimostra ancora di più quanto sia difficile e importante la scelta di un bocchino e quanto sia impossibile trovare il bocchino ideale cioè quello che racchiude tutte le caratteristiche descritte. Il bocchino ideale è quello che soddisfa al meglio le nostre esigenze di esecuzione e una volta individuato, spesso, resta quello per tutta la vita....forse.

lunedì 17 marzo 2014

Registrazioni storiche e rare

La Libreria del Congresso degli Stati Uniti d'America  contiene una mole enorme di informazioni sulla storia e la cultura americana, non ultima la musica. Da alcuni anni è stato creato il National Jukebox che raccoglie, in forma digitale, le rarissime registrazioni dell'inizio del secolo scorso che altrimenti sarebbero andate irrimediabilmente perdute.
Al link seguente è possibile ascoltare le incisioni della banda di Sousa con le interpretazioni di Clarke, Pryor e altri nomi famosi pionieri degli ottoni

Sousa 

sabato 15 marzo 2014

La sordina

La sordina (mute) è un accessorio che, applicato alla campana, modifica il suono cambiando il timbro o attenuandolo o diminuendolo notevolmente nel caso delle sordine da studio (silent mute).

Molto utilizzate sugli ottoni possono essere di forme e materiali molto diversi, ottone, alluminio, rame, cartone, plastica. I modelli sono tantissimi, qui si descrivono brevemente quelli più utilizzati.



La sordina Straight (dritta) è una delle più utilizzate ed ha generalmente forma conica o a pera.







La Cup (tazza) è una sorta di straight che ha all'estremità una tazza che chiude parzialmente o completamente la campana dello strumento.










La Solo Tone (o clear tone o megaphone) è simile alla straight  ma formata da due coni inseriti uno nell'altro e con un foro centrale.










Le Harmon/Wah Wah sono a forma di palla o cilindro  con un foro di uscita dell'aria all'estremità.  Nel foro può essere inserito uno Stem che consente di modificarne il suono. Viene detta Harmon (che è anche il nome del costruttore) se utilizzata senza Stem, Wah Wah con lo Stem inserito. E' comunque poco utilizzata sul trombone






La Velvet o Bucket (secchio) è un cilindro imbottito di materiale fono assorbente che viene attaccato al bordo della campana tramite clip o, per alcuni modelli, può essere inserita come una straight.









La sordina Hat (cappello) è un vero è proprio cappello a forma di bombetta.









La Plunger (stura lavandino) è simile nella forma alla Hat ma molto più piccola e maneggevole, spesso utilizzata con 







la Pixie (una straight particolare) inserita nella campana.

 









Le sordine da studio (mute o silenziose) sono usate per attenuare quasi del tutto il suono dello strumento. Alcuni modelli permettono di ascoltare il suono con delle cuffie collegate a una centralina che riceve il segnale da un mini microfono inserito nella sordina.





 



Sugli spartiti l'uso della sordina viene indicato con la scritta Con Sordina (o Con Sord) e Senza Sordina (o Senza Sord). Negli spartiti di musica jazz l'indicazione Mute si riferisce alla Straight mentre tutte le altre vengono indicate con il loro nome, per togliere la sordina l'indicazione è Open. Qui di seguito due siti di sordine vintage:
Vintage Mutes
Mute Meister


Non potendo a parole descrivere il suono, rimando ad alcuni video:

Ottolini 1

Ottolini 2