venerdì 20 giugno 2014

(Intervista) Michael Supnick

Nel 2007 (14 novembre) realizzai questa intervista a Michael Supnick per conto di Trombone Italia Magazine e, dal momento che il portale del trombone ha chiuso, la ripropongo qui onde evitare che vada perduta.

 
L’intervista è stata realizzata al Gregory’s di Roma durante la pausa della jam session che si tiene in questo locale ogni mercoledì.

D: Grazie da parte di Trombone Italia Magazine per aver accettato l’invito. Un americano a Roma (ultimo tuo CD): parafrasando un americano a Parigi di Gershwin o il film di Alberto Sordi. Come sei approdato qui e quali i tuoi studi musicali.

R: Ho cominciato a suonare nella banda della scuola elementare, quando ancora si insegnava musica e, chi voleva, poteva frequentare il corso di musica 1 o 2 ore a settimana. Frequentando questa banda ho seguito alcune lezioni con jazzisti locali sia in Michigan che in California. Ho partecipato quindi ai campi estivi dove, contrariamente a quello che accade in Italia, in USA si possono frequentare per un periodo di due settimane corsi per Big Band, improvvisazione, teoria musicale e anche musica classica insieme ad altre attività anche sportive.


D: dopo queste prime esperienze hai continuato studiare musica al college?

R: si, un anno alla Indiana University, dove seguivo anche matematica, ed ho cominciato a studiare con David Baker. L’ambiente non mi piaceva molto, era sullo stile di “Animal House”, con feste fino alle tre di notte, per cui mi sono trasferito alla Berklee. All’età di 16 anni già suonavo in quartetti di tromboni, a feste e matrimoni, qualche serata nei ristoranti.



D: hai deciso quindi di venire in Italia?

R: non subito, a circa 22 anni ho fatto un giro in Europa (Inghilterra, Irlanda, Scozia, Francia, Belgio) portando con me lo strumento e suonando quando mi si presentava l’occasione sia in qualche locale sia con musicisti di strada, bravissimi, che di giorno suonavano in metropolitana e di sera nei locali. Un novembre, spinto dal freddo, sono arrivato a Roma deciso a prendere una stanza per sei mesi e stare un po’ tranquillo, al quartiere Salario. Non parlavo la lingua italiana, stavo all’Ostello della Gioventù spacciandomi per studente universitario. La mattina studiavo un po’ in casa poi quando tornavano gli altri me ne andavo a Villa Ada, d’inverno, portandomi lo strumento e tutti i libri, e lì all’aperto, col freddo, passavo 5-6 ore a studiare. Qualcuno mi ha ascoltato mentre studiavo e mi ha portato in alcuni locali e nel giro di sei mesi sono stato “scoperto” da Renzo Arbore. Non sapevo chi fosse, mi telefonò in questa casa di studenti e parlammo in modo molto informale, così andai a fare un provino.



D: sei polistrumentista, ma il tuo primo strumento è stato il trombone?

R: si sono nato trombonista anche se a circa 16 anni avevo già comprato una tromba. Adesso suono anche la cornetta e altri ottoni.



D: con quale di questi strumenti hai più affinità?

R: sul jazz moderno e be bop sicuramente il trombone anche perché sulla tromba non ho una buona tecnica per suonare quel genere ed il gap fra me e gli altri non è così marcato, mentre sulla tromba fra me e per esempio Clifford Brown c’è un abisso per cui preferisco suonare qualcosa di Chet Baker o Miles Davis.



D: e per il dixieland?

R: ho suonato spesso anche quel genere, le prime jam che ho fatto erano in dixie ed è stata poi una scelta anche di tipo commerciale nel momento in cui ho inciso i dischi.

I primi gruppi nei quali ho suonato erano moderni ma non mi sono mai legato troppo mentre ho avuto sempre un debole per il jazz tradizionale anche se i primi anni a Roma suonavo molto più be bop quasi esclusivamente con il trombone. Soltanto recentemente, qui al Gregory’s mi son messo d’impegno a rivedere il moderno. Lo stesso CD Un americano a Roma contiene molto mainstream e brani con basso tuba insieme al moderno, quasi modale.



D: tu suoni ottoni diversi, quali problemi si incontrano a suonare ad esempio sia la tromba che il trombone?

R: non sono strumenti a “labbro” ma strumenti a fiato, se controlli il fiato e non fai pressione non hai problemi. Il mio labbro è un unico blocco e quella parte che metto davanti raccoglie quello che sto facendo. Mi bastano tre secondi per adattarmi nel passaggio da uno strumento all’altro, anche se prendo uno strumento che non ho mai suonato. Quando frequentavo il Berklee studiavo tantissime ore e mi massacravo il labbro poi, Paolo Boccabella, mi suggerì di studiare sul Colin, a volte facevo quegli esercizi anche per 5 ore. Il Colin mi ha costruito un labbro ed un diaframma di “ferro”.



D: Marcello Rosa in una intervista mi ha detto che invece di studiare preferisce scrivere musica e suonare. Tu invece?

R: è qualche anno che non riesco a studiare molto a causa del poco tempo a disposizione dal momento che suono molto. Studiare poco e suonare molto va bene fin quando riesci a suonare tanto. Io poi, a differenza di Marcello e dei “veri” jazzisti, che rispetto per le scelte fatte, suono un po’ di tutto, alle feste, ai matrimoni, perché mi diverte e preferisco fare questo piuttosto che un altro lavoro che non abbia a che fare con la musica.



D: hai partecipato a molte rassegne jazz in Italia e in Europa collaborando con grandi musicisti. Quale ti ha maggiormente colpito o ti ha lasciato qualcosa di importante?

R: ho fatto dei bellissimi concerti in Svizzera, ad Ascona, c’era anche Tom Baker, un musicista australiano che purtroppo è scomparso. Anche il film La leggenda del Pianista sull’Oceano è stata una esperienza interessante: lì la parte del trombone era suonata da Marcello Rosa anche se ho inciso le parti di musica sinfonica. In Forever Blues invece suonavo il trombone ed ho doppiato Franco Nero con la cornetta “prestando” anche le mie mani per le inquadrature . A giugno ho fatto una cosa molto emozionante, ho suonato con la dixieland jazz band di Jimmy La Rocca, il figlio di Nick, colui che ha inciso il primo disco di jazz nel ’17: il trombonista della band mi chiamò da New York dicendo di presentarmi al posto suo perchè aveva un problema; riuscii a parlare con i musicisti dal treno mentre loro erano a Ferrara ed il pianista, che non mi conosceva, mi disse “se non sei sicuro non venire”, ho fatto tutto il viaggio ascoltando i brani che suonavano. Alla fine è andato tutto molto bene.



D: quanto sono importanti le jam soprattutto per i giovani che iniziano con questo genere di musica?

R: la jam di solito è la prima occasione per suonare in pubblico. Ricordo che per tanti anni, ogni volta che dovevo suonare davanti a qualcuno avevo le fitte all’addome, mi girava la testa, era la paura da esibizione ed il confronto con gli altri, poi con il tempo tutto questo è passato consentendomi di suonare in diretta alla RAI o con Arbore davanti a 60000 spettatori senza emozionarmi più di tanto. Qui al Gregory’s c’è questo spazio/opportunità settimanale al mercoledì, io cerco di invitare tutti a salire sul palco e provare a suonare, magari preparandosi un brano la settimana precedente, è un banco di prova e siamo molto “buoni” nei loro confronti, a differenza di altre jam dove si cerca di pilotare l’esibizione soprattutto verso la qualità negando così a molti questa possibilità.



D: nasce spontanea la domanda: come si fa ad improvvisare, si impara o è un qualcosa che fa parte del musicista?

R: è un “mistero”, però anche qui è importante lo studio, l’ascolto, tirar giù i soli dai dischi, memorizzare le frasi chiave, gli accordi. E’ anche un discorso matematico: se hai quattro accordi e su ogni accordo conosci due frasi hai a disposizione 16 combinazioni, se hai tre frasi le combinazioni sono 81, con quattro diventano 256. Imparare tre frasi sul maggiore e tre sul minore, tre sul dominante ti dà la possibilità almeno di cominciare.



D: Winton Marsalis dice che il jazz fa parte della cultura americana, è come se fosse nel DNA. In Italia dove ci sono altre radici musicali, come si colloca il jazz?

R: Purtroppo in Italia si ascolta poco jazz, puoi passare intere ore a girare sulle stazioni radio e non sentire un brano di jazz, ancora meno in televisione. Negli Stati Uniti invece è una musica che senti dappertutto, dalla nascita, persino nei cartoni animati. Apprendi lo swing, anche se, devo dire, che molti musicisti che suonano jazz moderno non conoscono lo swing. Mi è capitato anni fa di suonare con Bob Mintzer, che è modernissimo, eppure ha uno swing incredibile, perché conosce la storia, la cultura di questa musica. In Italia il jazz è arrivato nel dopoguerra con le grandi orchestre, ed i grandi solisti avevano già vissuto il loro periodo d’oro, non fa parte quindi delle radici culturali di questo paese, è una musica d’importazione, ciò non toglie che ci siano comunque grandi musicisti.



D: chi sono stati i tuoi musicisti di riferimento e quanto ti hanno influenzato nello stile?

R: il mio stile non è unico, questa sera ho suonato avvicinandomi ad Armstrong, altre sere sono più vicino a Chet Baker, altre volte è Bix, dipende molto anche da quello che sento intorno a me



D: chi è stato per te un grande trombonista del passato?

R: i soliti nomi conosciuti, Teagarden, Young, JJ Johnson, Slide Hampton con il quale ho preso delle lezioni private ed ho seguito un corso estivo. E’ importante seguire le Master Class con questi grandi trombonisti dai quali si impara tantissimo. Ho studiato anche qualche anno con Phil Wilson, primo trombone di Woody Herman.



D: qualche indicazione per i giovani che si avvicinano al trombone?

R: per suonare non ci sono trucchi o segreti, l’unico metodo che dà risultati è tanto studio e tanto impegno. Così come non esistono attrezzature magiche o bocchini speciali, l’ultimo che ho comprato è stato 10 anni fa per una esigenza particolare, altrimenti sono quasi vent’anni che suono con un 7C, il che non vuol dire che adesso tutti devono comprare il 7C, il bocchino vale molto meno di quello che di solito si pensa, stesso discorso per lo strumento, perché il “tuo” suono esce comunque da qualsiasi strumento (parlo di strumenti di buon livello). Per quanto riguarda lo studio io trovo fondamentale il Charles Colin, ma anche l’ascoltarsi molto è importante per migliorare.

martedì 10 giugno 2014

(CD) Colours Jazz Orchestra - Home Away from Home

Ricevo dall'amico trombonista Teodorico Zurlo questa recensione e la pubblico volentieri.

Il nuovo lavoro della Colours Jazz Orchestra è frutto della collaborazione tra questa formazione e l'arrangiatrice Any Inserto.

7 brani di cui 5 composizioni originali della stessa Inserto sono il ricco contenuto di un CD che fin dalle prime note mostra uno scintillante smalto sonoro.

Ogni ascolto rivela nuove scoperte, la solida ritmica supporta il lavoro di sezioni distribuite anche trasversalmente come combo diversi che dialogano in originali e piacevoli contrappunti.

Un feeling, quello tra Any Inserto e l'orchestra, che si svela da subito nella musica eseguita con entusiasmo e convinzione ben oltre le capacità professionalidi questa smagliante formazione. Lo stesso feeling, questa volta verso l'Italia, traspare anche dai titoli, il brano di apertura richiama uno scherzoso modo di dire tra amici caratteristico del centro-sud, dalle atmosfere ed è confessato nelle note del disco fino all'espicita dichiarazione d'amore del titolo: Come a casa lontano da casa.

Solo qualche esempio per comunicare le mie impressioni.

Bisogna ascoltare l'arrangiamento del brano Recorda Me di Joe Henderson per ritrovare, nel tempo quasi dimezzato, tutta la forza espressiva dell'originale caricata di nuova luce e sensualità.

Convince anche il mood più funky di brani come Hang Around dove ascoltiamo per la prima volta in questo disco il trombone di Massimo Morganti: fraseggio rotondo, grande tecnica al servizio di una concezione melodica mai banale, sono le caratteristiche di questo musicista, anche lui ottimo arrangiatore e leader di questa formazione di cui, solo in questa esperienza, ha ceduto lo scettro.

Il brano seguente La danza infinita ci regala ancora una prova convincente delle doti musicali di Massimo Morganti capace in questa ballad di toccare tutte le corde emotive.

Ancora un salto di atmosfera e Down A Rabbit Hole porta alla ribalta il lavoro della ritmica e delle sezioni che lasciano sbocciare il brano fino all'atteso climax al culmine di un solo di sax tenore di un ottimo Filippo Sebastianelli.

Wintry Mix è un'altra sontuosa dimostrazione delle capacità timbriche di Any Inserto, come in un respiro i brass e i sax si alternano disegnando trame in cui abbandonarsi, anche qui ascoltiamo un bell'assolo questa volta del pianista Emilio Marinelli.

Chiude il disco un allegro calipso Subo il cui tema, introdotto da Massimo Morganti al trombone, allarga subito il cuore e invita a ballare rendendo meno difficile separarsi dalla musica ascoltata.

Il disco è stato realizzato grazie ad un visionario quanto coraggioso progetto di crowdfunfing (bella l'etimologia! CROWD=Folla + FUNDING=Finanziamento) che è andato ben oltre l'affetto degli appassionati e che ha ripagato con una splendida musica di cui possiamo godere le note quanto lo spirito con cui è stata composta, arrangiata e suonata.

Non fatevi sfuggire questo album e tutte le occasioni nelle quali potrete ascoltare la Colours Jazz Orchestra, una formazione seconda a nessuna nell'attuale panorama musicale.
Teodorico Zurlo

https://itunes.apple.com/it/album/home- ... d860044605