L’intervista
è stata realizzata al Gregory’s di Roma durante la pausa della jam session che si tiene in questo locale ogni
mercoledì.
D: Grazie
da parte di Trombone Italia Magazine per aver accettato l’invito.
Un americano a Roma (ultimo tuo CD): parafrasando un americano a Parigi di Gershwin o
il film di Alberto Sordi. Come sei approdato qui e quali i tuoi studi
musicali.
R: Ho
cominciato a suonare nella banda della scuola elementare, quando
ancora si insegnava musica e, chi voleva, poteva frequentare il corso
di musica 1 o 2 ore a settimana. Frequentando questa banda ho seguito
alcune lezioni con jazzisti locali sia in Michigan che in California.
Ho partecipato quindi ai campi estivi dove, contrariamente a quello
che accade in Italia, in USA si possono frequentare per un periodo di
due settimane corsi per Big Band, improvvisazione, teoria musicale e
anche musica classica insieme ad altre attività anche sportive.
D: dopo
queste prime esperienze hai continuato studiare musica al college?
R: si, un
anno alla Indiana University, dove seguivo anche matematica, ed ho
cominciato a studiare con David Baker. L’ambiente non mi piaceva
molto, era sullo stile di “Animal House”, con feste fino alle
tre di notte, per cui mi sono trasferito alla Berklee. All’età di
16 anni già suonavo in quartetti di tromboni, a feste e matrimoni,
qualche serata nei ristoranti.
D: hai
deciso quindi di venire in Italia?
R: non
subito, a circa 22 anni ho fatto un giro in Europa (Inghilterra,
Irlanda, Scozia, Francia, Belgio) portando con me lo strumento e
suonando quando mi si presentava l’occasione sia in qualche locale
sia con musicisti di strada, bravissimi, che di giorno suonavano in
metropolitana e di sera nei locali. Un novembre, spinto dal freddo,
sono arrivato a Roma deciso a prendere una stanza per sei mesi e
stare un po’ tranquillo, al quartiere Salario. Non parlavo la
lingua italiana, stavo all’Ostello della Gioventù spacciandomi per
studente universitario. La mattina studiavo un po’ in casa poi
quando tornavano gli altri me ne andavo a Villa Ada, d’inverno,
portandomi lo strumento e tutti i libri, e lì all’aperto, col
freddo, passavo 5-6 ore a studiare. Qualcuno mi ha ascoltato mentre
studiavo e mi ha portato in alcuni locali e nel giro di sei mesi sono
stato “scoperto” da Renzo Arbore. Non sapevo chi fosse, mi
telefonò in questa casa di studenti e parlammo in modo molto
informale, così andai a fare un provino.
D: sei
polistrumentista, ma il tuo primo strumento è stato il trombone?
R: si
sono nato trombonista anche se a circa 16 anni avevo già comprato
una tromba. Adesso suono anche la cornetta e altri ottoni.
D: con
quale di questi strumenti hai più affinità?
R: sul
jazz moderno e be bop sicuramente il trombone anche perché sulla
tromba non ho una buona tecnica per suonare quel genere ed il gap fra
me e gli altri non è così marcato, mentre sulla tromba fra me e per
esempio Clifford Brown c’è un abisso per cui preferisco suonare
qualcosa di Chet Baker o Miles Davis.
D: e per
il dixieland?
R: ho
suonato spesso anche quel genere, le prime jam che ho fatto erano in
dixie ed è stata poi una scelta anche di tipo commerciale nel
momento in cui ho inciso i dischi.
I primi
gruppi nei quali ho suonato erano moderni ma non mi sono mai legato
troppo mentre ho avuto sempre un debole per il jazz tradizionale
anche se i primi anni a Roma suonavo molto più be bop quasi
esclusivamente con il trombone. Soltanto recentemente, qui al
Gregory’s mi son messo d’impegno a rivedere il moderno. Lo stesso
CD Un americano a Roma contiene molto mainstream e brani con basso
tuba insieme al moderno, quasi modale.
D: tu
suoni ottoni diversi, quali problemi si incontrano a suonare ad
esempio sia la tromba che il trombone?
R: non
sono strumenti a “labbro” ma strumenti a fiato, se controlli il
fiato e non fai pressione non hai problemi. Il mio labbro è un unico
blocco e quella parte che metto davanti raccoglie quello che sto
facendo. Mi bastano tre secondi per adattarmi nel passaggio da uno
strumento all’altro, anche se prendo uno strumento che non ho mai
suonato. Quando frequentavo il Berklee studiavo tantissime ore e mi
massacravo il labbro poi, Paolo Boccabella, mi suggerì di studiare
sul Colin, a volte facevo quegli esercizi anche per 5 ore. Il Colin
mi ha costruito un labbro ed un diaframma di “ferro”.
D:
Marcello Rosa in una intervista mi ha detto che invece di studiare
preferisce scrivere musica e suonare. Tu invece?
R: è
qualche anno che non riesco a studiare molto a causa del poco tempo a
disposizione dal momento che suono molto. Studiare poco e suonare
molto va bene fin quando riesci a suonare tanto. Io poi, a differenza
di Marcello e dei “veri” jazzisti, che rispetto per le scelte
fatte, suono un po’ di tutto, alle feste, ai matrimoni, perché mi
diverte e preferisco fare questo piuttosto che un altro lavoro che
non abbia a che fare con la musica.
D: hai
partecipato a molte rassegne jazz in Italia e in Europa collaborando
con grandi musicisti. Quale ti ha maggiormente colpito o ti ha
lasciato qualcosa di importante?
R: ho
fatto dei bellissimi concerti in Svizzera, ad Ascona, c’era anche
Tom Baker, un musicista australiano che purtroppo è scomparso. Anche
il film La leggenda del Pianista sull’Oceano è stata una
esperienza interessante: lì la parte del trombone era suonata da
Marcello Rosa anche se ho inciso le parti di musica sinfonica. In
Forever Blues invece suonavo il trombone ed ho doppiato Franco Nero
con la cornetta “prestando” anche le mie mani per le inquadrature
. A giugno ho fatto una cosa molto emozionante, ho suonato con la
dixieland jazz band di Jimmy La Rocca, il figlio di Nick, colui che
ha inciso il primo disco di jazz nel ’17: il trombonista della band
mi chiamò da New York dicendo di presentarmi al posto suo perchè
aveva un problema; riuscii a parlare con i musicisti dal treno mentre
loro erano a Ferrara ed il pianista, che non mi conosceva, mi disse
“se non sei sicuro non venire”, ho fatto tutto il viaggio
ascoltando i brani che suonavano. Alla fine è andato tutto molto
bene.
D: quanto
sono importanti le jam soprattutto per i giovani che iniziano con
questo genere di musica?
R: la jam
di solito è la prima occasione per suonare in pubblico. Ricordo che
per tanti anni, ogni volta che dovevo suonare davanti a qualcuno
avevo le fitte all’addome, mi girava la testa, era la paura da
esibizione ed il confronto con gli altri, poi con il tempo tutto
questo è passato consentendomi di suonare in diretta alla RAI o con
Arbore davanti a 60000 spettatori senza emozionarmi più di tanto.
Qui al Gregory’s c’è questo spazio/opportunità settimanale al
mercoledì, io cerco di invitare tutti a salire sul palco e provare a
suonare, magari preparandosi un brano la settimana precedente, è un
banco di prova e siamo molto “buoni” nei loro confronti, a
differenza di altre jam dove si cerca di pilotare l’esibizione
soprattutto verso la qualità negando così a molti questa
possibilità.
D: nasce
spontanea la domanda: come si fa ad improvvisare, si impara o è un
qualcosa che fa parte del musicista?
R: è un
“mistero”, però anche qui è importante lo studio, l’ascolto,
tirar giù i soli dai dischi, memorizzare le frasi chiave, gli
accordi. E’ anche un discorso matematico: se hai quattro accordi e
su ogni accordo conosci due frasi hai a disposizione 16 combinazioni,
se hai tre frasi le combinazioni sono 81, con quattro diventano 256.
Imparare tre frasi sul maggiore e tre sul minore, tre sul dominante
ti dà la possibilità almeno di cominciare.
D: Winton
Marsalis dice che il jazz fa parte della cultura americana, è come
se fosse nel DNA. In Italia dove ci sono altre radici musicali, come
si colloca il jazz?
R:
Purtroppo in Italia si ascolta poco jazz, puoi passare intere ore a
girare sulle stazioni radio e non sentire un brano di jazz, ancora
meno in televisione. Negli Stati Uniti invece è una musica che senti
dappertutto, dalla nascita, persino nei cartoni animati. Apprendi lo
swing, anche se, devo dire, che molti musicisti che suonano jazz
moderno non conoscono lo swing. Mi è capitato anni fa di suonare con
Bob Mintzer, che è modernissimo, eppure ha uno swing incredibile,
perché conosce la storia, la cultura di questa musica. In Italia il
jazz è arrivato nel dopoguerra con le grandi orchestre, ed i grandi
solisti avevano già vissuto il loro periodo d’oro, non fa parte
quindi delle radici culturali di questo paese, è una musica
d’importazione, ciò non toglie che ci siano comunque grandi
musicisti.
D: chi
sono stati i tuoi musicisti di riferimento e quanto ti hanno
influenzato nello stile?
R: il mio
stile non è unico, questa sera ho suonato avvicinandomi ad
Armstrong, altre sere sono più vicino a Chet Baker, altre volte è
Bix, dipende molto anche da quello che sento intorno a me
D: chi è
stato per te un grande trombonista del passato?
R: i
soliti nomi conosciuti, Teagarden, Young, JJ Johnson, Slide Hampton
con il quale ho preso delle lezioni private ed ho seguito un corso
estivo. E’ importante seguire le Master Class con questi grandi
trombonisti dai quali si impara tantissimo. Ho studiato anche qualche
anno con Phil Wilson, primo trombone di Woody Herman.
D:
qualche indicazione per i giovani che si avvicinano al trombone?
R: per
suonare non ci sono trucchi o segreti, l’unico metodo che dà
risultati è tanto studio e tanto impegno. Così come non esistono
attrezzature magiche o bocchini speciali, l’ultimo che ho comprato
è stato 10 anni fa per una esigenza particolare, altrimenti sono
quasi vent’anni che suono con un 7C, il che non vuol dire che
adesso tutti devono comprare il 7C, il bocchino vale molto meno di
quello che di solito si pensa, stesso discorso per lo strumento,
perché il “tuo” suono esce comunque da qualsiasi strumento
(parlo di strumenti di buon livello). Per quanto riguarda lo studio
io trovo fondamentale il Charles Colin, ma anche l’ascoltarsi molto
è importante per migliorare.
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